“Se fossi un giurista, dovrei dire di no. Ma siccome faccio il sociologo, rispondo che l’accoglienza comincia dallo sguardo”.
Quando gli si chiede se la cosiddetta emergenza Ucraina potrà cambiare positivamente il sistema di accoglienza italiano per richiedenti asilo e rifugiati, il sociologo Maurizio Ambrosini si professa ottimista perché vede “uno sguardo simpatetico di apertura e uguaglianza” che riconosce nei rifugiati e, più in generale, nei migranti “persone simili a noi”.
Il nostro Paese, dall’inizio dell’invasione russa, ha accolto oltre 140mila persone in fuga dal conflitto, soprattutto donne e bambini. Secondo il professore dell’Università degli Studi di Milano, “una derivazione possibile e non troppo utopistica” di quello che sta succedendo potrebbe essere “un discorso più favorevole all’accoglienza”, propiziato proprio dall’atteggiamento positivo appena descritto.
Ambrosini non è ingenuo. Studia le migrazioni da anni e sa che, per molti aspetti, l’accoglienza dei profughi ucraini è un’eccezione, non la regola. Lo è a livello europeo, con l’attuazione della direttiva sulla protezione temporanea. Ma lo è anche a livello nazionale, con alcune novità che, per il momento, si applicano solo ai profughi ucraini e non a tutti gli altri richiedenti asilo e ai rifugiati, anche di altre nazionalità. Eppure, gli elementi di discontinuità che osserva gli sembrano positivi, sufficienti per sperare nel miglioramento di un sistema che, fino ad ora, si è rivelato frammentato e insufficiente.
Accoglienza diffusa, partenariato, responsabilizzazione
“La discontinuità – prosegue Ambrosini – la vedo in tre parole chiave: accoglienza diffusa, partenariato, responsabilizzazione.”
Con la prima, il professore si riferisce al bando della Protezione civile che ha dato la possibilità di ospitare anche a molti soggetti del secondo welfare prima non coinvolti: “associazioni, centri servizi per il volontariato, enti ecclesiastici. Vedo una partecipazione corale”, dice. Il partenariato viene di conseguenza: “tutte queste realtà – continua – vengono coinvolte a patto che si accordino con i comuni di accoglienza”.
Il modello, grazie al quale dovrebbero essere attivati 17mila posti circa, è una novità per il sistema italiano. E infatti si stanno riscontrando alcune difficoltà. Il Sole 24 Ore ha spiegato che, da un lato, non tutti i Comuni stanno firmando gli accordi di partenariato necessari per far partire i progetti di ospitalità. Dall’altro, la distribuzione geografica dei posti non combacia con la diffusione dei profughi e, quindi, la Protezione civile, per il momento, sembra aver messo in attesa i posti nelle regioni dove ci sono meno ucraini (Sicilia, Calabria e Basilicata). Il punto è importante e porta alla terza parola di Ambrosini: responsabilizzazione. “A differenza di tutti gli altri richiedenti asilo e rifugiati, i profughi ucraini vengono trattati da adulti”, spiega il professore.
Anche in virtù della protezione temporanea decisa a livello UE e di un regime di visti favorevole in vigore già prima della guerra, gli ucraini in fuga possono scegliere dove andare, sia tra un Paese UE e l’altro, sia all’interno degli stessi Paesi. E, infatti, in Italia, le presenze più numerose si registrano a Milano, Roma, Napoli e Bologna, dove erano già presenti folte comunità ucraine.
Tempo di cambiamenti
“I profughi ucraini che trovano sistemazioni autonome – prosegue Ambrosini – vengono sostenuti da un contributo del governo. Gli altri richiedenti asilo sono obbligati ad andare nei centri cui sono destinati e rischiano di essere esclusi dall’accoglienza se si assentano per troppe notti”. Sono differenze dannose, che andrebbero eliminate. A suo parere, “accoglienza diffusa, partenariato, responsabilizzazione” andrebbero estesi a tutto il sistema.
Il professore non è l’unico ad auspicare cambiamenti in questo frangente che molti giudicano favorevole (come, tra gli altri, Matteo Biffoni di Anci, Fabiana Musicco di Refugees Welcome e Oliviero Forti di Caritas Italiana, recentemente intervistati da Secondo Welfare, ndr).
Come riporta Altreconomia, a vent’anni dalla nascita del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR, poi SIPROIMI e oggi SAI), il Tavolo asilo e immigrazione dell’organizzazione ha lanciato sei proposte concrete per dar vita a quel “sistema che ancora non c’è”. Tra queste, si segnalano il trasferimento delle funzioni amministrative ai Comuni per la gestione ordinaria dell’accoglienza territoriale, un programma nazionale per il progressivo superamento dei Centri di accoglienza straordinaria (CAS), la progettazione condivisa tra enti locali ed enti del Terzo settore, l’accoglienza in famiglia e la consultazione permanente degli enti del terzo settore. A questi temi, Ambrosini ne aggiunge uno ulteriore.
Il post accoglienza
Il professor Ambrosini guarda oltre. “Oggi la sfida maggiore è il post accoglienza e cioè il rapporto tra l’accoglienza istituzionalizzata, nei Cas e nel Sai, e la fase successiva, quando l’accoglienza finisce”, spiega. La questione riguarda tutti i rifugiati, anche se in modi diversi.
A differenza della maggior parte dei cittadini di altre nazionalità che, solitamente, arrivano in Italia, e in Europa, con l’idea di restarci, non è ancora chiaro quali siano le intenzioni di molti cittadini ucraini. Come ha sottolineato l’Economist, infatti, da quando è iniziato il conflitto, sono stati registrati dall’Onu 7,7 milioni di attraversamenti dei confini dall’Ucraina verso i Paesi vicini. Ma anche 2,6 milioni in direzione contraria. Sono dati da interpretare con cautela, ma per il settimanale britannico, potrebbero suggerire “che molti ucraini sono desiderosi di tornare o ritengono abbastanza sicuro farlo temporaneamente”.
La volontà di tornare a breve in patria è sicuramente un fattore di cui tenere conto, ma per Ambrosini, è nella fase successiva all’accoglienza che “si possono introdurre molti molti elementi di miglioramento della situazione attuale, se l’accoglienza stessa diventa una responsabilità della società nel suo complesso”. “Le associazioni e più in generale gli enti del secondo welfare possono creare momenti di aggregazione, tramite sport e musica, per esempio, nonché promuovere l’accoglienza diffusa”, dice il sociologo. Non solo.
“Vanno creati dei percorsi di regolarizzazione per chi non si vede riconosciuta la protezione internazionale, per inserire queste persone nel mondo del lavoro, magari con una formazione professionale apposita come fanno in Germania. L’alternativa è aumentare l’emarginazione e quindi l’insicurezza”.
L’importanza del lavoro
Per Ambrosini, “il mercato del lavoro è il motore primo dell’integrazione”. Per anni, prosegue il professore, “l’accoglienza dei rifugiati è stata fatta in condizioni di mercato del lavoro stagnante, quindi difficile. Ora, invece, siamo in una stagione diversa e moderatamente positiva, malgrado i dubbi e le incertezze legate proprio alla guerra”. E questo vale per tutti i rifugiati, compresi gli ucraini che sono numericamente molto significativi.
La Banca Centrale Europea ha stimato che, “nel complesso, l’afflusso di rifugiati ucraini dovrebbe portare a un graduale aumento delle dimensioni della forza lavoro dell’area dell’euro”. “I calcoli retrospettivi – spiega in una nota la BCE – indicano un aumento mediano della forza lavoro dell’area dell’euro compreso tra lo 0,2% e lo 0,8% nel medio termine. Ciò corrisponde a un aumento tra 0,3 e 1,3 milioni della forza lavoro dell’area dell’euro”.
L’obiettivo secondo Ambrosini è “mettere in collegamento l’esigenza primaria dei nuovi arrivati di rendersi autonomi con il fabbisogno del mercato del lavoro”. Come mostrano alcuni esempi locali, per i profughi ucraini potrebbe essere più facile, perché la protezione temporanea offre subito la possibilità di lavorare, mentre i cittadini stranieri di altre nazionalità che fanno domanda di asilo devono aspettare più tempo, sia per legge sia perché il procedimento per ottenere la protezione internazionale è solitamente molto lungo, e scoraggia i datori di lavoro dall’investire sulla formazione di lavoratori che potrebbero poi ricevere un diniego ed essere allontanati.
A prescindere da queste differenze, però, per Ambrosini, i punti cruciali sono la fiducia e la collaborazione tra aziende, pubblico e privato sociale. “Abbiamo bisogno di datori di lavoro che abbiano fiducia e assumano rifugiati, richiedenti asilo e anche i diniegati, soprattutto in un momento come questo in cui c’è carenza di manodopera. La formazione si potrebbe fare in collaborazione col sistema pubblico, ma anche con i soggetti del Terzo Settore”. Per questi ultimi, che sono a tutti gli effetti degli attori del secondo welfare, lo spazio per agire potrebbe essere ampio.