Mentre la retorica anti-immigrazione monta nel dibattito politico, appiattendo il tema dell’accoglienza sul bisogno di sicurezza dei cittadini, il vero nodo della questione rimane lontano dai riflettori: l’integrazione economica, sociale e culturale del migrante, in un contesto che soffre il progressivo scollamento tra narrazione (spesso strumentale alla politica) e realtà dei fatti.
In un recente saggio, Alesina, Miano e Stantcheva descrivono come gli italiani tendano a sovradimensionare di ben 16 punti la percentuale di migranti sul territorio (ferma al 10%, a fronte del 26% stimato); allo stesso modo, si crederebbe erroneamente che più del 40% dei migranti siano senza lavoro – i tassi di disoccupazione degli stranieri sono pressoché uguali, se non minori di quelli italiani (ad esempio nel Mezzogiorno) – vivendo sulle spalle di chi paga le tasse in Italia . In un dibattito che tende ad associare l’immigrazione, specie se clandestina, con la criminalità, una famiglia su tre sostiene di “avere paura”, seppur di fronte a una drastica diminuzione dei reati nell’ultimo decennio (i crimini sono scesi del 10% nel corso dell’anno, mentre le rapine sono crollate del 37,6% dal 2008). Lo stesso capo della polizia Franco Gabrielli, nel 2016, aveva confutato qualsiasi associazione tra immigrazione e numero di reati.
Quello che questi dati raccontano è, dunque, una sostanziale distanza tra due immaginari contrapposti, che si materializza in un muro di ostilità nei confronti dello straniero, alimentando l’intolleranza persino nei confronti di comunità da sempre presenti sul territorio (come nel caso di Rom e Sinti). In un’indagine promossa dal Parlamento Europeo, circa la metà dei rispondenti dichiara di nutrire sentimenti negativi non solo verso i migranti economici (51%), ma anche verso i rifugiati (49%).
Per Ambrosini, esclusione è la situazione in cui “la mancanza di autorizzazione legale si salda con l’assenza di riconoscimento sociale” producendo “una situazione di marcata ostilità nei confronti degli stranieri”. Ad esempio, i “clandestini” nel discorso pubblico hanno assunto una connotazione chiaramente negativa, essendo spesso individuati come una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico, o un carico sul welfare a spese dei contribuenti. A poco serve riportare che complessivamente i 2,4 milioni di occupati stranieri regolari contribuiscono al fisco molto di più di quanto non ricevano in forma di servizi, sgravi e supporto dal settore pubblico, coprendo con largo margine le spese per l’accoglienza – oltre che finanziando virtualmente 640 mila pensioni. Agli immigrati verrebbe applicato il concetto di “crimmigration”, che nasce dall’intersezione tra la mancata integrazione nel sistema d’accoglienza (l’“autorizzazione formale”) e l’esclusione dalla “società ricevente” (volano di tolleranza).
L’indice d’inclusione MIPEX, che mette a sistema i vari indicatori di inclusione dello straniero (dal lavoro, alla salute, passando per scuola e politiche sociali), evidenzia la mediocrità dell’Italia in fatto di politiche d’accoglienza: se la buona performance del sistema ospedaliero e in materia di riunificazione familiare alza il punteggio, il nostro Paese si dimostra particolarmente ostile riguardo alle politiche dell’educazione – strumento fondamentale per l’inclusione. L’Indice di Inserimento Sociale elaborato dal CNEL conferma questi trend, individuando proprio le regioni del Sud (in particolare Sicilia, Basilicata, Calabria, Lazio e Campania) come fanalini di coda; nel Mezzogiorno, il punteggio basso dipenderebbe soprattutto dalle poche opportunità di soggiorno stabile, di naturalizzazione e di radicamento sul territorio (con pochissimi permessi di soggiorno per motivi familiari).
Secondo Ambrosini, quindi, due sarebbero i fattori in grado di generare integrazione: il coinvolgimento nel circuito “istituzionale” e l’inclusione nelle comunità locali.
Da un lato, il sistema d’accoglienza è divenuto ormai l’unica strada percorribile per l’ingresso legale nel Paese. A fronte della progressiva diminuzione delle “quote di ingresso” per gli immigrati a titolo lavorativo, passate da 350 mila nel 2010 a soltanto 13 mila nel 2016, il circuito è saturato dalle richieste di asilo e protezione internazionale. L’Italia, collo di bottiglia nello schema europeo di ricezione dei migranti in virtù di Dublino III, ha respinto negli anni un numero sempre maggiore di applicants, collocandosi ben al di sotto della media europea (39.2% delle istanze vengono accolte a fronte del 60.6% tra gli EU28). Gestito con logica emergenziale, solo un quarto dei richiedenti asilo viene ospitato negli SPRAR, mentre il resto alloggia in strutture di natura straordinaria o temporanea.
Dall’altro lato, le comunità locali giocano un ruolo di primo piano nell’accoglienza del migrante. Anche in questo caso, poche esperienze virtuose, come quella di Riace e di Acquaformosa, suppliscono a fatica ad uno scenario desolante. Se le “periferie” a Sud del Paese sono troppo spesso prone a meccanismi di sfruttamento e caporalato, il report di Medici senza Frontiere ha recentemente fatto luce sulle condizioni di vita dei migranti nei grandi agglomerati urbani: 10mila migranti in tutta Italia vivono all’aperto, in palazzi occupati o baraccopoli; la Capitale accoglie due mila migranti in meno rispetto al numero previsto dall’accordo Stato-regioni, spingendo così i richiedenti verso insediamenti informali. A Roma, dove spesso vivono senza luce, gas o acqua, si registra quindi la mancanza di una seria riflessione sulle modalità d’integrazione degli immigrati, di fronte al progressivo aumento degli sgomberi forzati da parte delle autorità competenti.
Il potenziale inclusivo o esclusivo delle comunità locali verte a sua volta su due circuiti paralleli: il mercato del lavoro e la sfera educativa.
I Principi Comuni sull’Integrazione dell’Unione Europea definiscono il lavoro come un “fattore chiave nel processo d’integrazione”. In fatto di impiego, gli stereotipi fanno presto il conto con la realtà: pur essendo coinvolti nei settori più colpiti dalla crisi economica, i tassi d’occupazione degli immigrati sono simili, e in alcune regioni addirittura maggiori, di quelli dei cittadini italiani. Lo straniero è, però, allo stesso tempo soggetto a meccanismi di sovra-qualificazione (tendendo ad occupare posizioni più basse di quanto non farebbe nel paese d’origine) e sotto-retribuzione, competendo “al ribasso” per impieghi a basso guadagno, poco qualificati e tanto meno gratificanti.
Il lavoro degli stranieri in Italia è spesso descritto con le cinque P: pesante, precario, pericoloso, poco pagato, penalizzato socialmente. Guadagnando in media il 30% in meno rispetto agli italiani, solo il 23% degli stranieri si dichiarano soddisfatti del loro salario, aggiungendosi alla categoria dei “working poor” – quanti vivono in condizioni di povertà pur avendo un lavoro. Il 90% degli immigrati svolgono lavori di tipo manuale, mentre il restante 10% si riferisce perlopiù a lavori autonomi.
Se il Sud accusa gli strascichi della crisi economica, perdendo ben 13 punti di Pil tra il 2008 e il 2014, la forte domanda di lavoro “migrante” al Settentrione dà vita a un trade-off tra qualità del lavoro e tasso d’occupazione. Al Nord, dove gli immigrati incontrano minori opportunità occupazionali rispetto agli italiani, essi tendono a coprire posizioni leggermente più qualificate, con una più alta probabilità di migliorare le proprie condizioni lavorative; nel Mezzogiorno, pur mostrando un vantaggio nella possibilità di trovare lavoro rispetto ai “nativi”, la qualità del lavoro si dimostra più bassa, essendo costretti a ripiegare su posizioni precarie, subalterne e mal pagate. Situazioni di segregazione sociale e ghettizzazione “geografica” peggiorano il quadro, limitando ulteriormente le opportunità lavorative degli stranieri. In mancanza di politiche che promuovano l’inclusione nel tessuto sociale, Boeri dimostra che un incremento del 10% nella concentrazione dei non-nativi nella stessa area geografica riduce la probabilità di impiego futuro del 7-8%.
Da ultimo, l’importante partita dell’integrazione si gioca tra i banchi di scuola. Con circa 826 mila studenti e studentesse, il numero di alunni di origine straniera che frequentano la scuola in Italia è in netta crescita dalla seconda metà degli anni Novanta . Sempre il rapporto MIPEX colloca l’Italia come fanalino di coda nelle politiche educative in Europa, mettendo in chiaro quanto gli studenti stranieri siano spesso etichettati come “gruppo problematico”, senza un’accurata riflessione sui bisogni individuali (ad esempio, adeguando e differenziando le modalità d’insegnamento per bambini di prima o seconda generazione, arrivati di recente, figli di rifugiati, non accompagnati, etc.).
L’Italia si posiziona tra gli ultimi posti anche nelle politiche di accesso ai vari tipi di scuola, dato che i nuovi arrivati rischiano sovente di essere inseriti ad un livello errato nel percorso educativo: meno della metà dei nati all’estero è collocato nella classe adeguata all’età. L’Italia mostra le sue carenze nella promozione di corsi in lingua, che sono completamente assenti dai curricula, a differenza della maggior parte degli altri Paesi europei. L’abbandono scolastico tra gli stranieri è drammaticamente alto (un terzo), ben 9 punti sopra alla media europea (22%). Il dato sulle bocciature è altrettanto preoccupante: la percentuale di alunni stranieri non ammessi alla classe successiva rappresenta l’8,7%, quasi quattro volte tanto il numero degli italiani (2,7%), e gli immigrati ottengono risultati scolastici inferiori in tutti i gradi di scuola. Già all’età di 15 anni, il gap nei rendimenti scolastici è tra i più ampi dei paesi OCSE.
In poche parole, la scuola italiana ha perso il suo ruolo di ascensore sociale non solo per gli strati medio-bassi dei “nativi”, ma anche tra gli stranieri. Se alcune strategie sono state adottate di recente, come le misure per facilitare l’ingresso dei richiedenti asilo nel ciclo universitario, l’idea di rimettere le politiche educative al centro del paradigma sembra ancora lontana.
Come abbiamo visto, l’inclusione non è che il risultato di un delicato equilibrio, al crocevia tra il mercato del lavoro, la sfera educativa e il sociale. Di fronte alla sordità degli attori politici, in un dibattito che vede il migrante come “figlio di un Dio minore” e per questo non meritevole di adeguata accoglienza, l’esigenza è quella di ripensare gli spazi comunitari, soprattutto nei grandi agglomerati cittadini, trasformandoli in veri e propri “spazi di flusso”. Con la chiusura delle frontiere, il Governo porta nel Mediterraneo una battaglia culturale che in questi anni si è combattuta nelle periferie urbane e sociali del Paese, tanto nei campi di pomodori, quanto negli insediamenti abusivi, nelle scuole e nelle fabbriche: è la tensione tra integrazione ed esclusione, uguaglianza e stigma, solidarietà e diffidenza. Ribaltare l’equazione, mettendo in campo politiche di welfare inclusive che connettano scuola, società e lavoro, è oggi più che mai necessario.
Riferimenti bibliografici
Alesina A., Miano A. e Stantcheva S. (2018), Immigration and Redistribution, NBER Working Paper.
Ambrosini M. (2016), La regolazione dell’immigrazione in Italia e nell’Europa meridionale: tra sovranità nazionale, mercato e diritti umani, in Sociologia del lavoro, n. 143/2016.
Ambrosini M. e Panichella N. (2016), Immigrazione, occupazione e crisi economica in Italia, in Quaderni di Sociologia, 72/2016.
MIUR (2018), Gli alunni con cittadinanza non italiana, Roma.
Radicali (2016), Governance delle politiche migratorie tra lavoro e inclusione. Le proposte di Radicali italiani per cambiare il racconto sull’immigrazione, Rapporto 2016.