La Giornata internazionale del rifugiato, indetta dalle Nazioni Unite, viene celebrata il 20 giugno per commemorare l’approvazione nel 1951 della Convenzione relativa allo Statuto dei rifugiati (Convention Relating to the Status of Refugees) da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il tema dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti è da tempo al centro degli approfondimenti del nostro Laboratorio: ci pare dunque importante celebrare questa ricorrenza riportando di seguito alcune riflessioni e analisi che abbiamo realizzato e stiamo realizzando in questo ambito.
Together
Sul sito web dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) si legge che questa giornata rappresenta un’occasione per chiedere la piena inclusione dei rifugiati in ogni ambito della società dal lavoro allo studio, dalla casa alla salute. La pandemia ha contribuito a mostrare le connessioni tra tutte le componenti della società. Per svolgere questo insegnamento, che purtroppo potrebbe essere dimenticato in fretta, sulla stessa pagina si legge “together, we can do anything”.
Purtroppo, bisogna fare ancora molta strada per costruire una società davvero inclusiva e politiche volte all’accoglienza e all’inclusione che siano all’altezza delle sfide che ci pone un mondo globale attraversato da disuguaglianze, crisi politiche e sociali e dagli effetti dei cambiamenti climatici. Molto deve essere fatto per costruire quel together che sempre di più ci permetta di vedere le politiche di accoglienza come parte di un sistema complessivo di welfare che garantisce l’effettivo benessere di tutti i cittadini.
Il dibattito mediatico, quasi interamente dominato dai frame dell’emergenza e della sicurezza, ha spesso ignorato i dati sulla reale entità dei flussi (come ricordato in questo articolo). Ma anche altre sono le distorsioni presenti nel dibattito pubblico: basta evidenziare che le notizie dei giornali sui giovani migranti usano come fonte l’opinione di politici più spesso di quanto facciano riferimento a esperti, dati o ai diretti interessati (per approfondire qui).
L’accoglienza in Italia
Tutto ciò ha contribuito a oscurare la realtà del sistema di accoglienza diffuso sul territorio, che è andato articolandosi e strutturandosi in seguito ai flussi del 2014 e 2015. Una realtà variegata, quest’ultima, nella quale sono stati i CAS (i centri di accoglienza straordinaria) ad ospitare la maggioranza dei migranti presenti sul territorio nonostante il modello di accoglienza del nostro paese sia costituito dall’ex Sprar, poi divenuto Siproimi e oggi Sai.
Nell’ambito dell’accoglienza straordinaria hanno convissuto le più svariate esperienze (come documentato tra gli altri da Openpolis), adottando modelli organizzativi vari: dai grandi centri all’accoglienza diffusa, dalla cattiva accoglienza alle buone pratiche integrate con il welfare locale. I tagli all’accoglienza, determinati dal cosiddetto Decreto Salvini, hanno messo a dura prova i punti di eccellenza di questo sistema, riducendo la qualità dei percorsi di inclusione.
I tagli al sistema dei CAS hanno di fatto ridotto la prima accoglienza ad un limbo, un tempo sospeso in attesa che venga accolta o (più spesso) respinta la domanda di asilo. Le esperienze migliori costruite nell’arco di tempo che va dal 2014 al 2019 hanno invece considerato la prima accoglienza come il primo passo di quel percorso di inclusione che può trovare poi compimento nelle fasi successive. È a livello locale, infatti, che in molti territori è stata ricomposta e costruita un’unica filiera dell’accoglienza, integrando la prima e la seconda accoglienza.
Il nostro focus
In questi ultimi anni, attraverso il focus “Immigrazione e accoglienza”, abbiamo pubblicato diversi articoli, scritti dai ricercatori del Laboratorio e da altri studiosi. Molte attività di ricerca, di cui vi abbiamo parlato, si sono realizzate nell’ambito del progetto Interreg Italia-Svizzera Minplus. Questo progetto è stata l’occasione da un lato per mappare le buone pratiche realizzate in Piemonte in particolare in aree rurali con comuni di piccole dimensioni, dalla Val di Susa alla Val d’Ossola, e dall’altro per interloquire con un sistema, quello svizzero e ticinese, assai differente e caratterizzato da politiche più robuste e strutturate, seppure non esente da criticità.
Il progetto Minplus, iniziato nel 2019, non si è ancora concluso e prevede nel corso del prossimo anno diverse azioni:
- l’approfondimento della tenuta del sistema di accoglienza alla prova della pandemia e del post-pandemia, in particolare dei giovani migranti (richiedenti asilo e rifugiati, siano essi ex minori non accompagnati o no) in contesti territoriali spesso poco indagati, come la città di Novara e la Valle d’Ossola;
- la sperimentazione di iniziative volte a potenziare i percorsi di piccoli gruppi di giovani migranti in carico a soggetti partner del progetto;
- l’analisi e la diffusione di buone pratiche comunicative nell’ambito del sistema di accoglienza.
La nostra attenzione al tema va però oltre il progetto Minplus, che ha – come illustrato – una declinazione territoriale ben precisa. Abbiamo infatti ospitato interventi sul tema dell’accoglienza che riguardano svariati territori, come ad esempio Jesi e Treviso.
Pensiamo infatti sia utile parlare di buone politiche: ormai una vasta letteratura ci dice che le politiche securitarie favoriscono irregolarità e non producono maggiore sicurezza sociale. Inoltre, i tagli alla buona accoglienza hanno effetti negativi anche sull’occupazione della popolazione locale. Si pensi agli operatori dell’accoglienza che hanno perso il lavoro in conseguenza proprio di tali tagli.
È ormai noto, tuttavia, che fare riferimento agli innumerevoli dati a favore di buone politiche di accoglienza e inclusione potrebbe non rappresentare una strategia comunicativa sufficiente. Per questo, guardiamo con sempre maggiore interesse al tema del cambio di narrativa.
Questo approccio, su cui stanno investendo diverse fondazioni impegnate nell’inclusione, promuove campagne comunicative rivolte a quella fascia di popolazione che non ha idee radicali sull’argomento (il cosiddetto “centro fluido”). Lo scopo è trovare un terreno comune di confronto capace di accogliere anche le paure e i dubbi.
È sicuramente ampia quella fascia di popolazione che vuole riflettere su questi temi in modo diverso e “altro” rispetto a quello prevalente caratterizzato dalla polemica e dalla polarizzazione. Anche su questo proveremo a dare un contributo con i nostri mezzi: ricerca, formazione e divulgazione.
Perché quel together non resti una parola ma si concretizzi nelle politiche destinate a chi giunge nel nostro Paese.