Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, esattamente un anno fa, oltre 170.000 persone provenienti dal Paese in guerra sono arrivate in Italia (dato al 13 gennaio). Si tratta, nella maggioranza dei casi, di donne e minori, che hanno chiesto quasi tutti la protezione temporanea, come previsto dalla Direttiva UE 55/2001.
“Per far fronte all’arrivo straordinario dei cittadini ucraini l’Italia ha deciso di affiancare al sistema ordinario dell’accoglienza la gestione da parte della Protezione civile dei rifugiati. In particolare il Dipartimento della Protezione Civile ha predisposto un Piano per l’accoglienza e l’assistenza, che ha integrato con le misure di accoglienza diffusa realizzate attraverso gli enti del Terzo Settore e del privato sociale. Una risposta repentina, che ha coinvolto enti locali e le organizzazioni dal basso, dando vita a sistema ibrido e totalmente nuovo”, ricorda Eleonora Camilli su Redattore sociale.
In questo sistema “totalmente nuovo” due sono gli elementi di maggiore interesse nell’ambito del secondo welfare: i compiti affidati agli enti del Terzo Settore, inediti e più ampi rispetto al passato nella cosiddetta accoglienza diffusa, e l’apertura istituzionale all’accoglienza in famiglia. A un anno dallo scoppio del conflitto, come sta andando questo approccio?
Accoglienza diffusa. E difficile
Prima dell’emergenza ucraina, con accoglienza diffusa si intendeva solitamente la rete SAI – che sta per Sistema Accoglienza Integrazione ed è gestita da Ministero dell’Interno e ANCI, l’Associazione Nazionale Comuni Italiani. Il modello SAI (che in precedenza è stato chiamato anche SPRAR e, per breve tempo, SIPROIMI) consente di ospitare richiedenti asilo e rifugiati in maniera capillare sui territori, per iniziativa dei Comuni e con il coinvolgimento degli enti del Terzo Settore, che spesso sono gli enti gestori degli spazi di accoglienza.
La Protezione Civile, per accogliere le persone in fuga dall’Ucraina, ha lanciato una nuova accoglienza diffusa, diversa e parallela. Tra aprile e marzo 2022, ha aperto un bando per 15.000 posti dedicato non ai Comuni (come avviene nel SAI) ma a enti del Terzo Settore, Centri di servizio per il volontariato, enti religiosi civilmente riconosciuti ed organizzazioni iscritte alla prima sezione del Registro degli enti e delle associazioni che svolgono attività in favore degli immigrati. L’idea, per incanalare la grande solidarietà mostrata dagli italiani, era che famiglie, gruppi e piccole associazioni facessero riferimento alle principali reti del Terzo Settore nazionale (come Caritas o Arci) per ospitare i profughi ucraini nelle loro case o in altri spazi, con un contributo statale di 33 euro al giorno a persona.
L’esito del bando è stato un successo, in 10 giorni le offerte arrivate dal Terzo Settore sono state ben più dei posti disponibili e, a inizio maggio, la Protezione Civile ha selezionato 29 soggetti per un totale di 17.012 posti lungo tutta la penisola.
Poi, però, qualcosa si è inceppato.
E, ad oggi, sono state attivate solo 12 convenzioni per un totale di 5,332 posti, dice il sito della stessa Protezione Civile.
Caritas, uno degli enti che aveva messo a disposizione più posti, ha spiegato come è andata in questi mesi. “Caritas Italiana ha partecipato al bando della Protezione civile per le accoglienze diffuse sui territori, firmando una convenzione per la messa a disposizione di 1.489 posti a partire dal 4 agosto 2022. A fronte di questa disponibilità complessiva, la Protezione Civile ha attivato però solamente un numero ridotto di accoglienze”, si legge in una nota stampa. “Dall’avvio della convenzione le Caritas hanno accolto complessivamente 507 persone, per periodi diversi, da alcuni giorni a diversi mesi”, prosegue il documento.
Un meccanismo ingolfato
Le difficoltà sono state numerose e diverse. Gli enti del Terzo Settore dovevano accordarsi con i Comuni nei quali si sarebbero svolti i progetti di accoglienza e spesso questi passaggi, a volte tecnici, a volte politici, hanno allungato i tempi. Altre volte, le richieste da parte della Protezione Civile sono state molto precise e impegnative, richiedendo agli enti del Terzo Settore un grande lavoro burocratico, che ha preso altro tempo. Inoltre, diverse disponibilità all’accoglienza date dalle famiglie in inverno sono venute meno col passare dei mesi, così come la possibilità di affittare appartamenti o altri spazi, a volte, è mutata.
“È lodevole l’intenzione di mettere più soggetti insieme, sicuramente. Del resto, diciamo sempre che l’accoglienza è una responsabilità condivisa, che va portata avanti il più possibile con le comunità”, spiega a Secondo Welfare Manuela De Marco di Caritas Italiana. “Però così, le comunità sono state messe sotto sforzo dalla catena di passaggi burocratici e sono finite per essere il collo di bottiglia”, dice riferendosi al fatto che le lentezze della macchina amministrativa pubblica hanno finito per incidere sulla reale capacità dei territori di accogliere, come dimostrano i numeri limitati del bando della Protezione Civile.
“Questa intenzione lodevole – aggiunge De Marco – andrebbe gestita in maniera differente. Ci si potrebbe sedere intorno a un tavolo per capire come non ingolfare il meccanismo”. E sfruttare al meglio la disponibilità mostrata dalla società civile, come ha fatto la stessa Caritas Italiana con un’altra iniziativa. Accanto ai posti del bando della Protezione Civile, infatti, il progetto Apri Ucraina ha coinvolto 90 Diocesi e aiutato oltre 6.000 profughi ucraini, che in larga parte sono ancora oggi ospitati in strutture delle parrocchie, dei parrocchiani o trovate, anche in affitto, appositamente.
Il risultato di Apri Ucraina, limitato ma comunque superiore a quello raggiunto dal bando della Protezione Civile, fa pensare che una procedura disegnata in modo diverso e tempistiche più rapide avrebbero forse portato a numeri maggiori. “Una delle critiche che venivano rivolte alla rete SAI era quella di non saper rispondere alle emergenze, fornendo risposte troppo lente e cristallizzandosi su tempistiche troppo lunghe”, ragiona ancora De Marco. L’accoglienza diffusa per i profughi ucraini ha avuto, sostanzialmente, gli stessi problemi. “Si potrebbe snellire perché, di fatto, diventa un sistema emergenziale parallelo al SAI”, conclude.
Il suo ragionamento risuona nelle parole di Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato ANCI all’immigrazione.“Suggerisco sommessamente di fare esattamente al contrario di come si è gestita questa partita. Consolidiamo il SAI, rendiamolo flessibile e in grado di rispondere con efficienza alle emergenze, che purtroppo non hanno mai cessato di accadere”, ha dichiarato a inizio febbraio.
Accolti in famiglia
All’interno del bando per l’accoglienza diffusa era contenuta anche l’altra grande novità introdotta dall’emergenza Ucraina, l’ospitalità in famiglia. Questa possibilità, finora, era sempre stata concretizzata da realtà del Terzo Settore, fuori dal sistema pubblico, mentre ora è stata per la prima volta prevista anche da un provvedimento di un ente statale, come la Protezione Civile. Anche in questo caso, non senza alcune difficoltà.
Lo sanno bene a Refugees Welcome Italia, onlus che da anni pratica l’ospitalità in famiglia e che, con lo scoppio del conflitto, un anno fa, è stata subissata dalle richieste di cittadini e cittadine che si dicevano pronti ad aprire le porte delle loro case alle persone in fuga dall’Ucraina. “Oggi abbiamo circa 210 famiglie che accolgono”, fa i conti la direttrice Fabiana Musicco. Circa 80 famiglie sono a Milano, altrettante a Roma e una cinquantina in altre città. Molte che inizialmente di erano fatte avanti, si sono tirate indietro col passare dei mesi.
“Coniugare la disponibilità della società civile con i tempi della pubblica amministrazione va fatto meglio”, riflette Musicco. Altrimenti, il rischio è che i secondi frustino la prima, con risultati paradossali.
Delle famiglie ospitanti di Refugees Welcome, circa la metà è inserita nell’accoglienza diffusa organizzata dalla Protezione Civile e sostenuta da fondi statali. L’altra metà, invece, non è risultata idonea, perché le accoglienza erano già iniziate prima che il bando venisse aperto e perché il bando era pensato per dare la priorità alle persone accolte in situazioni temporanee, come gli alberghi. “È assurdo”, commenta la direttrice. “Immaginate la frustrazione e la rabbia delle famiglie rimaste escluse, che abbiamo dovuto sostenere noi con fondi della nostra organizzazione”, aggiunge.
Per contro, Musicco è molto soddisfatta di un’altra iniziativa che è cresciuta in questi mesi grazie all’arrivo delle persone in fuga dall’Ucraina: gli albi delle famiglie accoglienti. I Comuni di Roma, Bari, Padova, Bergamo e Ravenna, con il supporto di Refugees Welcome, hanno creato degli strumenti comunali che hanno consentito a cittadine e cittadini di ospitare i profughi ucraini, e in alcuni casi non solo loro. “I Comuni che hanno aperto l’albo per l’emergenza si son resi conto che la cittadinanza voleva ospitare e hanno cavalcato l’onda”, dice Musicco. “Ci eravamo dati l’obiettivo di sollecitarli a mettere a sistema questa pratica di ospitalità e ci siamo riusciti”, aggiunge, spiegando come alcuni Comuni abbiano poi allargato la misura anche a persone di altre nazionalità e condizioni, non limitandosi ai soli profughi ucraini.
Il punto è importante. Perché tocca un nodo scoperto: chi è rimasto fuori dall’accoglienza strutturata.
Doppio standard
Fabrizio Curcio, capo del dipartimento della Protezione civile, ha spiegato all’Essenziale che, dei circa 170.000 ucraini arrivati in Italia, “130.000 persone hanno ricevuto la misura economica di autosostegno”, e cioè hanno trovato una sistemazione autonoma, da parenti, amici o in affitto sul mercato privato e, dallo Stato italiano, hanno ottenuto soltanto un contributo economico. Di fatto, la stragrande maggioranza dei rifugiati ucraini non è entrata nel sistema di accoglienza. E questa è una prima distinzione importante.
Poi ci sono tutti i richiedenti asilo e i rifugiati di altre nazionalità, che hanno uno status giuridico diverso (non sono coperti dalla protezione temporanea prevista dalla Direttiva 55 dell’UE) e anche condizioni di ospitalità molto differenti, più complesse, in definitiva peggiori.
Refugees Welcome, per esempio, ammette di fare più fatica a trovare persone disposte ad accogliere rifugiati non ucraini. “L’apertura verso gli ucraini ci ha colpito molto, ma verso altre nazionalità la vediamo molto meno”, dice Musicco. Sono anche esempi come questi che hanno spinto molti esperti a parlare di un doppio standard di accoglienza. Lo ha fatto anche Maurizio Ambrosini, sociologo dell’Università degli Studi di Milano, esperto di migrazioni.
“A differenza di tutti gli altri richiedenti asilo e rifugiati, i profughi ucraini vengono trattati da adulti”, diceva il professore a luglio 2022 sulle nostre pagine, fornendo un esempio concreto di questo doppio standard. “I profughi ucraini che trovano sistemazioni autonome – proseguiva – vengono sostenuti da un contributo del Governo. Gli altri richiedenti asilo sono obbligati ad andare nei centri cui sono destinati e rischiano di essere esclusi dall’accoglienza se si assentano per troppe notti”.
Sette mesi dopo, la situazione non è migliorata. Anzi.
“Il doppio standard – conclude Ambrosini – mi sembra si sia inasprito. I rifugiati ucraini vengono protetti, mentre tutti gli altri vengono disumanizzati”.