Se definiamo i luoghi come “spazi capaci di generare e condividere significati”, capiamo l’importanza che i luoghi rivestono per quelle organizzazioni che si legittimano nel perseguire l’interesse generale. La costruzione di una nuova generazione di “luoghi comuni” e di “economie di luogo” passa, infatti, dalla simbiosi fra il “to make a sense” di un nuovo mutualismo e il valore d’uso di spazi concepiti come piattaforme multifunzionali ad alto valore aggiunto sociale e culturale.
Negli ultimi anni, sono sempre più numerose le iniziative che hanno catalizzato e addensato intorno a spazi spesso degradati o sottoutilizzati nuove relazioni tra attori diversi, con l’obiettivo di individuare destinazioni d’uso che rispondessero meglio alle sfide sociali che caratterizzano la nostra epoca.
Partnership e reti attivate non per occasionali “matrimoni d’interesse”, ma per costruire vere e proprie infrastrutture sociali, intorno alle quali i Comuni e le Fondazioni bancarie più lungimiranti stanno costruendo vere e proprie politiche d’innovazione sociale e d’inclusione. La stessa finanza, tradizionalmente attenta agli investimenti sugli asset, sta modificando i propri criteri di scelta, preferendo quelle soluzioni urbane capaci di incorporare funzioni sociali e comunitarie spesso co-prodotte con organizzazioni senza scopo di lucro.
Trasformare gli spazi in luoghi
È infatti il dono, inteso come relazione, il meccanismo capace di trasformare gli “spazi in luoghi”. Un ingrediente, questo, non di esclusiva pertinenza del volontariato e dell’associazionismo, ma sicuramente presente in essi in dosi molto rilevanti. Partecipazione, motivazioni intrinseche, attivismo comunitario, economie sociali sono gli immancabili ingredienti che insieme alla cultura, vero e proprio “lievito” di questi processi, vengono ricombinati per alimentare valore tanto nelle nostre città quanto nelle più distanti aree interne. La nuova generazione di luoghi è figlia di un’alchimia che ci restituisce quasi sempre pezzi unici: habitat che nascono ricombinando il “valore di legame” con il “valore d’uso” degli spazi.
Il nesso fra luoghi e Terzo Settore è perciò molto significativo, ma anche molto consumato da una cultura che per troppo tempo li ha equiparati a “sedi” oppure a “sportelli”. Occorre, infatti, uscire dalla strumentalità dentro cui questo rapporto nel tempo si è evoluto, per riscoprirne il nesso originale che da sempre lega i significati dell’agire gratuito e pro-sociale, allo spazio e al territorio.
Nell’era della globalizzazione è nella dimensione di luogo che si giocherà la biodiversità del not for profit e della cooperazione, ossia nella capacità della dimensione civica, solidaristica e di utilità sociale di legarsi alla fisicità del territorio fino a condividerne il valore. Una relazione dinamica, mai statica, sempre in evoluzione: le relazioni si generano fra le persone, ma i luoghi ne aumentano la densità e le rendono potenzialmente trasformative.
C’è molto Terzo Settore nei “DOVE” che nascono dai centri culturali e da un emergente associazionismo informale; c’è molta imprenditorialità sociale e mutualismo nel protagonismo di giovani e comunità che generano o rigenerano nuovi percorsi di sviluppo locale attraverso una nuova offerta di beni e servizi ad alto contenuto esperienziale (e spesso politico). Esperienze, queste, che si misurano più sulla qualità dei processi, piuttosto che sulla congruenza a linee guida precostituite, e che tendono a produrre cambiamenti e trasformazioni, piuttosto che output e funzioni.
Un terreno di sperimentazione
Lo spazio pubblico (inteso nella concezione di Hannah Arendt) è per il Terzo Settore, oggi più che mai, il terreno di sperimentazione per un “nuovo ciclo d’innovazione sociale”, che passa da “nuove infrastrutture inclusive”, ove la produzione, il consumo e la partecipazione tendono a fondersi.
Segno evidente di questo dinamismo sono le nuove professionalità (welfare manager, community manager, architetti di comunità, designer sociali, ecc) che stanno fiorendo nel Terzo Settore, tanto nel mondo della cittadinanza attiva quanto in quello dell’impresa sociale: ruoli che faticano ad attribuirsi un mansionario “codificato”, ma che si riconoscono nell’essere protagonisti di nuove storie che riprendono in mano “oggetti” antichi come la casa, la scuola, la fabbrica, la comunità, il quartiere, l’RSA, li destrutturano per liberarli da recinti burocratici e li socializzano dando loro una vocazione esperienziale e creativa legata però sempre al bisogno degli abitanti (nativi o alieni che siano).
Le economie della rigenerazione, infatti, non passano più, come in precedenza, da percorsi di economia di scala, bensì da economie di scopo e di prossimità.
Trasformarsi per “trasformare l’esistente”
Sono oltre 750.000 le strutture immobiliari in condizione di abbandono: palazzi, ville, edifici ecclesiastici, strutture industriali, 6.000 chilometri di ferrovie inutilizzate e circa 1.700 stazioni, oltre all’elevato numero di strutture pubbliche di grandi metrature, come ospedali, caserme e sanatori non più utilizzati.
Un valore tacito e dormiente che necessita di comunità intenzionali e intraprendenti, capaci di progettare forme inedite di gestione comunitaria. «Il modello di gestione – diceva l’economista Elinor Ostrom – deve essere congruente con la natura del bene: se questo è comune, anche la gestione deve esserlo». Ecco perché occorre riscoprire e rilanciare (anche partendo da legami deboli) un nuovo mutualismo comunitario. Il futuro di molti beni (pubblici e privati) passa da quella spinta “dal basso” capace di restituire attraverso una “governance comune” nuova vita a risorse fino ad oggi dormienti.
Una sfida, quella dei luoghi, che chiede alle organizzazioni orientate all’interesse generale di “trasformarsi” per “trasformare l’esistente”, abbandonando le “passioni tristi” come diceva Spinoza. Abbracciare le aspirazioni spesso divergenti dei giovani, abbassare le soglie e condividere un comune rischio in nuovi percorsi d’imprenditorialità, sono passi indispensabili affinché il Terzo Settore e la cooperazione possano continuare a conversare con tutte quelle comunità che mai come oggi domandano che il “tempo che scorre” (Chronos) si trasformi in “tempo propizio” (Kairos) e che lo spazio che abitano si possa vivere come “luogo”.
Questo articolo è uscito sul numero 2/2022 di Rivista Solidea, pubblicazione promossa dall’omonima Società di mutuo soccorso e parte del network del nostro Laboratorio. |