Nuove alleanze alla pari per sviluppare azioni inedite di welfare: è quanto si sta sviluppando in numerose città italiane a partire dal Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, adottato per la prima volta a Bologna nel 2014. Uno strumento attraverso il quale le organizzazioni della società civile propongono interventi sul proprio territorio, che si realizzano con il contemporaneo impegno dei cittadini proponenti e del Comune. Ne parla Daniela Ciaffi nel numero 5/2016 di Wefare Oggi.
Il Regolamento per la cura dei beni comuni: nuovo dispositivo di welfare nell’interesse generale
Dal 2001 nella nostra Costituzione è stato introdotto il principio di sussidiarietà che, come argomenteremo in questo contributo, rappresenta una grande chance di cambiamento generale, e anche in termini di prospettive che si aprono sul tema del welfare. “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (art. 118, ultimo comma).
Il laboratorio per la sussidiarietà, Labsus, nato nel 2005 come gruppo di ricerca aperto e finalizzato a far scoprire al maggior numero possibile di persone le opportunità concrete che la sussidiarietà offre, si basa sullo stretto rapporto tra innovazione giuridica, istituzionale, sociale, economica, ambientale e culturale. Tra le proprie attività, Labsus ha ideato e promuove un Regolamento per amministrare in modo condiviso i beni comuni urbani e territoriali.
Il processo è iniziato una quindicina di anni fa alla comparsa del principio di sussidiarietà nella nostra carta costituzionale, ma ha conosciuto una svolta quando, nel 2014, alcuni tra i maggiori esperti di diritto amministrativo hanno accolto lo stimolo di uno straordinario funzionario del Comune di Bologna, Donato Di Memmo, che mise in evidenza un problema che gli si presentava quotidianamente. Troppo spesso le energie di molti bolognesi attivi venivano disperse: occorreva un dispositivo, il più semplice possibile, per canalizzarle meglio.
Fu così che Bologna adottò il primo Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani. Dopo un anno erano già circa seimila i cittadini di tutta Italia che si erano registrati sul sito di Labsus per accedere al testo, disponibile peraltro anche altrove, sul web. Ma il “tam tam” non è stato solo virtuale: sempre più numerosi sono gli attivisti per la diffusione del concetto di Amministrazione condivisa veicolato dal Regolamento. In tutta Italia oggi Labsus accompagna amministrazioni, associazioni e gruppi informali di cittadini attivi curiosi di sperimentare Patti di reciproca collaborazione.
Il Regolamento prevede la possibilità, da parte dei cittadini o organizzazioni della società civile di proporre un intervento (gli esempi vanno da interventi di cura di spazi pubblici esistenti come gestire un giardino di quartiere in modo condiviso, alla riqualificazione di un’area urbana, al riuso di un edificio, a servizi di solidarietà sociale) che si realizza con il contemporaneo impegno dei cittadini proponenti e del Comune. Quest’ultimo assicura sempre un proprio supporto: mettendo a disposizione i propri mezzi di comunicazione diffusa, il lavoro di dipendenti comunali e le attrezzature per i diversi settori di intervento pubblico locale, le proprie reti con altri soggetti del territorio. Il regolamento offre una cornice giuridica in cui tale azione può collocarsi e delinea ne delinea le regole; ogni singolo intervento diventa parte di un Patto di collaborazione che specifica, coerentemente con il regolamento, i soggetti, i modi e i tempi con cui cittadini e istituzioni si impegnano reciprocamente a realizzare obiettivi comuni.
Dal nostro osservatorio è sempre più evidente che ragionare anche sul welfare in termini di interesse generale (Marocchi e Novarino, 2016) non solo può evitare un’interpretazione riduttiva e in negativo della sussidiarietà – secondo cui nel momento in cui i privati si attivano il (welfare) pubblico dovrebbe ritrarsi – ma può soprattutto cambiare il nostro modo di sentirci abitanti delle nostre città e dei nostri territori. Che questo cambiamento sia in corso è evidente: in Italia sono sempre più numerose le esperienze di comunità che si aggregano attorno alla cura di beni comuni (spazi verdi, edifici in disuso, luoghi pubblici recuperati eccetera).
Ma è necessario distinguere forme di autogoverno che nascano e poi crescano/si esauriscano in assenza di attori pubblici che collaborino, da movimenti che sentano invece sin da subito l’esigenza di tale collaborazione, ritenendola imprescindibile. Il Regolamento prevede che i Comuni facciano la loro parte favorendo le iniziative dei gruppi attivi nelle città e nei territori, nei modi e nei tempi pattuiti; reciprocamente, anche i cittadini attivi, i gruppi informali e le associazioni devono rispettare gli impegni presi.
Il dibattito pubblico che ha accompagnato questo processo è stato in un primo tempo molto prevedibile: l’accusa che veniva più frequentemente mossa alle amministrazioni pubbliche locali consisteva nell’attribuire loro lo sfruttamento di cittadini già vessati dai tributi locali. Con il passare del tempo e la possibilità di confrontarsi nel merito dei Regolamenti adottati da decine di Comuni, ma ancor più entrando nel vivo dell’azione attraverso la stipula dei primi Patti di collaborazione, la cultura dell’Amministrazione condivisa è andata via via incidendo su due sfide di cambiamento culturale. Da una parte lo snellimento burocratico e la rapidità realizzativa sono diventati auto-evidenti (questo è il caso degli oltre duecento Patti stipulati nel comune di Bologna); dall’altra parte la costruzione di collaborazioni multi-attoriali, inedite dal punto di vista tematico, sorprendenti sotto il profilo dei contraenti (“nemici storici”, per così dire, che finalmente si alleano).
A distanza di due anni e mezzo sono oggi quasi cento i Comuni italiani che hanno adottato questo Regolamento, tra cui capoluoghi di Regione come Torino, Bari e Genova, ma anche luoghi fortemente simbolici come Casal di Principe, numerose realtà medie lombarde e toscane ma anche più piccole, come Acireale in Sicilia, adattandolo tutte ai rispettivi contesti, con lo stesso obiettivo: portare la prospettiva sull’interesse generale, facendo del tema dei beni comuni uno dei laboratori privilegiati di esercizio della democrazia locale. I Patti di collaborazione sono i dispositivi attraverso cui il Regolamento concretamente si attua.
Un patto di collaborazione prevede che un bene comune possa diventare oggetto di azioni di cura, rigenerazione, riuso o gestione per iniziativa di cittadini singoli o associati, ovvero su proposta dei funzionari o dei responsabili politici comunali. Tale proposta può quindi venire “dall’alto” o “dal basso” ma risulterà sempre come azione, materiale e/o immateriale, che non può prescindere dal responsabilizzarsi delle diverse parti contraenti, che si impegnano a rispettare gli impegni pattuiti.
Essi possono essere contratti da cittadini, amministratori (tutti coloro che hanno un ruolo professionale all’interno della Pubblica amministrazione), membri di associazioni operanti sui territori, persone attive in gruppi informali e soggetti privati. Nel momento in cui si stipula un Patto di collaborazione, il principio costituzionale sopra riportato diventa realtà. Dunque: al livello nazionale si fa riferimento all’articolo 118 ultimo comma, al livello locale i Comuni adottano il Regolamento, infine si stipulano i Patti di collaborazione alla scala micro-urbana, di città, di area metropolitana o territoriale.
Box 1. Welfare alla prova dei migranti: un patto che rafforza la coesione sociale nel parco di tutti a Terni
Il Patto di collaborazione “Tutti al parco” è stato stipulato tra il Comune di Terni e l’Arci locale: individua il parco anallergico Campitello come area in cui sperimentare le attività progettuali e gestionali relative agli orti urbani. In esso si afferma che le politiche devono smettere di essere settoriali ed autoreferenziali al fine di misurarsi con i singoli cittadini, le famiglie, e il sistema sociale. Nello specifico il Comune sceglie di non continuare a gestire la manutenzione delle aree verdi e l’accoglienza dei migranti come se fossero due settori separati. Attraverso questo Patto si prevede la costituzione di un “laboratorio urbano permanente” che valorizzi i volontari storici insieme ai ragazzi ospitati nei progetti Sprar con azioni concrete di cura del verde da un lato e attraverso manifestazioni di cultura locale e multietnica dall’altro lato, con il contributo di scuole e associazioni locali. La scrittura del patto è accurata ed attenta a specificare la sua doppia natura, materiale (riqualificare uno spazio urbano) e immateriale (farne un luogo di aggregazione sempre animato).
Come far fronte alla complessità? I Patti di collaborazione, luogo di sperimentazione appropriato
Come Tonucci (2005) ricordava in un bellissimo libro dedicato alla prospettiva degli abitanti più piccoli delle città: non siamo tutti cittadini italiani, maschi, giovani, sani, istruiti e con un buon reddito. Lo si vede bene anche facendo un’accurata analisi di alcuni contraenti dei Patti di collaborazione, ad esempio anziani, migranti, abitanti di strada.
Per capire la profonda innovazione culturale, prima ancora che di diritto alla città in senso generale o di diritto amministrativo in senso proprio, va ricordato uno dei primi e più rivoluzionari articoli del Regolamento di Labsus: adottandolo, le amministrazioni pubbliche si pongono in una posizione non autoritativa rispetto ai cittadini. Autoritativa è, in generale, la posizione di chi gioca sulla propria supremazia gerarchica rispetto ad altri soggetti, su propri vantaggi di diversa natura, su diversi tipi di debolezza di altri soggetti. Autoritativo è quel soggetto che può fare e immediatamente disfare un accordo con un altro soggetto. Nel Regolamento il passaggio chiave è rappresentato dal mettersi alla pari tra chi governa e chi è governato: punto distintivo focalizzato peraltro anche da studiosi di buone pratiche e politiche sparse nel mondo occidentale, dove comunità attive e amministratori pubblici locali collaborano reciprocamente (Gallent e Ciaffi, 2014).
Come già all’inizio degli anni ottanta Lanzara e Pardi avevano intuito, i sistemi sociali sono complessi. Per interpretare l’effervescenza di fenomeni di attivismo comunitario e di voglia di collaborazione tra diversi attori urbani non bastano etichette come “atomi di movimenti globali” o “risposte logiche allo stato di crisi”. Richiamare alla complessità dei problemi continua a essere di fondamentale importanza di fronte a ricorrenti e calcificati pregiudizi, ad esempio quello secondo cui la presenza dei soggetti pubblici in certi settori sarebbe di per sé una condizione da evitare o, viceversa, quello secondo cui gli unici responsabili dei problemi esistenti sarebbero sempre e solo gli amministratori pubblici: gli eletti politici e/o i funzionari comunali.
Entrambe queste attitudini corrispondono pienamente al paradigma bipolare, che vede contrapporsi amministratori e amministrati, e che Arena (2006) descrive come schema sorpassabile dal paradigma collaborativo, se è vero che stiamo iniziando a vivere in un’epoca contraddistinta, per alcuni versi, da un crescente spirito di condivisione (Arena e Iaione, 2015). Nei Patti di collaborazione, come abbiamo iniziato a spiegare, amministratori pubblici e cittadini si pongono alla pari e sullo stesso piano: si responsabilizzano e collaborano, ad esempio nella gestione di uno spazio pubblico, nella cura di un servizio, nel riuso di un edificio, nella rigenerazione di un bene comune.
Poiché diverse versioni del Regolamento sono disponibili sul sito di Labsus, nello spirito di renderlo un “wiki-regolamento” aperto ai contributi di tutti coloro che vogliano suggerire riflessioni e integrazioni, non sono mancate sollecitazioni da parte di alcuni movimenti di cittadini che ne hanno proposto versioni in cui era molto forte la componente antagonista, sulla scia di autori che caricano il tema dei beni comuni di significati ideologici forti quale la crisi della proprietà a seguito del retour des communs (Coriat, 2015).
Chi spinge perché il dibattito evolva in questo senso finisce con l’attribuire al Regolamento sfide semplicemente fuori tema: è il caso di versioni che vorrebbero contrastare l’attuale sistema economico-finanziario (con un regolamento comunale?) o che, in modo antitetico ma paradossalmente assai simile, vorrebbero de-regolarizzarlo caricandolo di promesse di sgravi fiscali e detassazioni tributarie (con un regolamento comunale!).
Ma il parere di chi scrive è che il vero luogo del cambiamento più radicale di alcune routine di potere calcificate, di ingiustizie economiche, di malfunzionamenti sistemici eccetera, non siano tanto i testi dei Regolamenti, quanto i singoli Patti di collaborazione. Se in un Patto i contraenti saranno così bravi da far funzionare una banca del tempo, un sistema mutualistico o un baratto di servizi in modo che “i conti tornino”, essi avranno risposto in modo creativo e puntuale alla domanda di chi in quel luogo abita e conosce a fondo le risorse attivabili. Questo è il caso di uno dei primi patti di collaborazione bolognesi, secondo cui alcune persone senza fissa dimora, che preferiamo chiamare abitanti della strada, conservano le chiavi di un giardino di quartiere, lo aprono e lo chiudono, e in cambio di questo servizio altri contraenti del patto pagano loro il dormitorio pubblico. È chiaro che su questo equilibrio tutta un nuovo sistema urbano potrebbe essere immaginato e teorizzato, ma questo è piuttosto il momento di frequenti e sistemiche sperimentazioni.
Box 2. Nuove alleanze per far fronte alla povertà: il Patto di collaborazione stipulato a Cortona
“Spesa sospesa” è il Patto di collaborazione stipulato tra il Comune di Cortona, una radio e la Caritas locali. Perché iniziative di solidarietà tra i clienti dei negozi, le famiglie in condizioni di disagio economico e i commercianti del territorio (anche in collaborazione con le associazioni di categoria) siano incoraggiate, il Comune mette a disposizione tutti i servizi pubblici locali coinvolti, stipulando una collaborazione con la radio locale, che si impegna a promuovere, diffondere e comunicare le diverse iniziative, con la Caritas, che si impegna con la propria esperienza relazionale e organizzativa, e con i negozi identificabili con un contrassegno, che offrono la merce. Scopo condiviso è una programmazione dinamica, nel senso che i soggetti pattuiscono di avere un’attitudine flessibile e attiva, impegnandosi nell’assumersi responsabilità anche rispetto al prevenire situazioni a rischio. Lo scopo non consiste dunque solo nel fatto che famiglie indigenti possano avere accesso al cibo, ma che si attivi un sistema di racconto e ascolto di tipo nuovo da parte di soggetti tradizionali, come la Caritas e i servizi comunali, accanto a soggetti inediti, come la radio e i commercianti locali. C’è differenza tra il ritirare un pacco alimentare gratuito e poter entrare nei negozi solidali con la tua condizione di povertà, sentendo che la radio approfondisce un problema che non è solo tuo.
Soggetti di Welfare: non beneficiari ma protagonisti del cambiamento
Non sarà quindi un Regolamento per la collaborazione tra cittadini e amministrazione lo strumento attraverso cui lanciare sfide all’attuale sistema di sviluppo socio-economico, ma saranno se mai innovativi Patti di collaborazione che potranno essere stipulati una volta che il Regolamento sarà stato approvato. Allo stesso modo, in tema di welfare, il punto non è tanto che il Regolamento elenchi articoli di posizionamento contro le logiche di assistenzialismo, disuguaglianza, povertà eccetera.
Il Regolamento deve essere, per così dire, un ombrello sotto cui mettere al sicuro Patti di collaborazione improntati a nuove forme di mutualità, azioni efficaci e creative di contrasto alla povertà, basate su un’idea nuova di cittadinanza, che valorizzino le risorse ambientali di un certo luogo, le relazioni attivabili tra i suoi vecchi e nuovi abitanti. I Patti sfidano il sistema socio-economico perché smontano enormi sfide in sfide più circoscritte e tematizzate. Se ad esempio esiste uno storico problema di insufficienza di spazi pubblici di aggregazione in un quartiere, un Patto di collaborazione potrà iniziare a rispondere mettendo a collaborare alcuni abitanti con soggetti pubblici, privati, del terzo settore: il Comune, un liceo, la parrocchia, un’impresa sociale, un comitato di cittadini… le configurazioni di possibili contraenti sono tante. Basta che alcuni abbiano l’idea e si responsabilizzino, poi chiunque si potrà unire. L’unico patto è quello di rispettare i patti.
Molti amministratori a cui viene presentato questo nuovo strumento di diritto amministrativo rispondono che nel loro comune c’è già un Regolamento simile. Ma i regolamenti settoriali, ad esempio un Regolamento per la cura del verde comunale, non sono ombrelli sufficientemente ampi per proteggere le molteplici, diverse e spesso sorprendenti declinazioni di una cittadinanza attiva (non solo nella cura di orti e giardini) che non vuole avere nei confronti dell’amministrazione pubblica locale un atteggiamento rivendicativo, ma costruttivo, sperimentale, collaborativo. L’idea di fondo è che nuove prassi generative capaci di far fronte a problemi complessi abbiano bisogno di laboratori territorializzati e condivisi. Restringendo il campo, ad esempio al solo tema del verde pubblico urbano, appare una scelta impoverente rispetto a lasciarlo il più aperto possibile a proposte tematiche o territoriali nuove.
Come sottolinea bene Vecchiato (2016) non basta il restyling della sussidiarietà intermedia, dell’associazionismo, del volontariato, del non profit: anche gli aiutati hanno diritto di sperimentare quanto valgono le rispettive capacità dell’essere parte attiva essi stessi delle azioni previste dal patto e per conoscere i benefici moltiplicativi dell’aiutare ad aiutarsi, come nell’esempio citato di Terni, in cui i richiedenti asilo sono finalmente percepiti come una risorsa da parte degli altri cittadini.
In questa visione la cultura della prossimità e della domiciliarità è importante, perché in molti casi è la palestra naturale del lavoro comunitario e della collaborazione tra operatori, enti e decisori. Attenzione però a non far coincidere tout court i Patti di collaborazione con aree urbane sempre puntuali e ristrette: l’adozione congiunta del Regolamento per la cura del lago di Bracciano da parte di tutti i comuni che vi si affacciano è forse uno degli esempi più evidenti dell’ampio respiro territoriale che può avere la cultura pattizia locale. I Patti di collaborazione, in questo caso, stabiliscono le azioni di cura che i cittadini di un Comune possono svolgere anche in un altro Comune limitrofo, aprendo la strada a molti possibili scenari di cura condivisa di spiagge, valli eccetera.
Box 3. Narni accessibile a tutti: un Patto tra Comune di Narni, Unità sanitaria locale, teatro, associazioni
Il “Patto di collaborazione per il miglioramento dell’accessibilità urbana” si caratterizza per la varietà dei sei soggetti contraenti: oltre all’associazione di promozione sociale nata per migliorare l’accessibilità di alcune aree del territorio e ad altre associazioni, troviamo anche l’Unità Sanitaria Locale e il teatro comunale. Tra gli obiettivi: “Soddisfare la domanda sociale di paesaggio recuperando gli spazi pubblici con finalità sociali e di miglioramento anche estetico del paesaggio urbano […] valorizzando il concetto di bene comune”; “Attivare forme di contributi a vario titolo al fine di finanziare i progetti di cui al presente patto”; “Promuovere progetti ad alto riscontro economico e sociale dotati di una solida sostenibilità finanziaria in grado di generare un positivo impatto nel territorio, per attrarre anche eventualmente investitori sociali […]”. Il Comune di Narni si impegna per parte sua a collaborare non solo mettendo a disposizione quattro dipartimenti (lavori pubblici, organizzazione e gestione del territorio, servizi sociali e associazioni), ma anche impegnandosi in attività di osservatorio e pianificazione integrata delle politiche. Anche in questo caso l’output del patto va molto al di là dell’abbattimento delle barriere architettoniche alla basilica di San Valentino, alla riqualificazione del giardino del reparto di Neuropsichiatria infantile e dell’età evolutiva, o alle opere di riqualificazione sugli edifici e gli spazi dell’azienda ospedaliera di Terni. Ciò a cui si punta è piuttosto una serie di azioni e alleanze mirate a costruire una squadra di soggetti eterogenei capace di progettare “dall’alto” e “dal basso”, anche per accede ai finanziamenti europei previsti per il periodo 2014-2020.
Considerazioni conclusive
Partendo dal presupposto secondo cui le persone sono portatrici non solo di bisogni ma anche di capacità, è importante sapere che nuove alleanze possono essere pattuite nelle città che adottano il Regolamento. Gli esempi scelti testimoniano sensibilità verso un approccio preventivo rivolto a tutti, oltre che curativo delle persone bisognose. I Patti di collaborazione sono un dispositivo troppo recente perché si possano già valutarne le ricadute e gli impatti. Ma l’ipotesi è che attorno ai beni comuni si aggreghino delle comunità di affinità, oltre che di interesse, che costruiscono alleanze nuove che cercheranno di assorbire le problematicità in modo inedito. Ad esempio possiamo dire che a Cortona il patto intercetta preventivamente possibili situazioni di impoverimento e che per questo i servizi sociali dicono che arrivano meno poveri a chiedere sussidi? Non ancora, ma la direzione in cui muove il Patto è quella.
Attraverso i Patti di collaborazione la sfera pubblica, privata e del terzo settore possono sovrapporsi in modo sinergico: le energie dei singoli, dei gruppi informali e delle associazioni vengono così messe a disposizione della comunità per contribuire a dare soluzione a sfide che non spettano solo alle amministrazioni pubbliche, così come non possono essere affrontate senza un loro contributo. Agire in modo sussidiario è ben diverso dal disinteressarsi dello stato di fatto e del futuro: i Comuni che si impegnano nel cambiamento della quotidianità degli abitanti di strada (Bologna) dei rifugiati (Terni) e degli indigenti (Cortona) investono risorse umane, economiche e organizzative attraverso i Patti.
La Costituzione riconosce che i cittadini sono in grado di attivarsi autonomamente nell’interesse generale e dispone che le istituzioni debbano sostenerne le idee e gli sforzi. I Patti di collaborazione testimoniano che soggetti in difficoltà così come soggetti altamente qualificati possono essere interessate a risolvere non solo i propri problemi individuali, ma anche quelli che riguardano l’interesse generale, perché hanno intuito, capito o presupposto, che se migliora la vita di tutti migliora anche la propria quotidianità.
L’amministrazione condivisa dei beni comuni è un’opportunità nuova e concreta, grazie ai Patti di collaborazione previsti dal Regolamento per la collaborazione tra cittadini e amministrazioni per la cura, la rigenerazione, il riuso e la gestione dei beni comuni. Quali sono state le ricadute in termini di welfare che possono derivare dalle azioni di amministrazione condivisa è una domanda spesso centrale.
Inutile nascondere che molte sono le problematicità connesse ad un cambiamento culturale così profondo: molti sono i responsabili politici che non hanno capito la portata del Regolamento e ne hanno rifiutato l’adozione, confondendolo con altri regolamenti comunali. Altri non lo hanno considerato, al contrario, proprio perché ne hanno capito la portata in termini di ridisegno degli equilibri (mettersi alla pari di altri contraenti, seppur limitatamente a un Patto di collaborazione, non è uno scenario sempre attraente). Abbondano ovviamente gli ostacoli di tipo burocratico, che pongono al centro gli aspetti assicurativi e relativi alla sicurezza. Anche in comuni seriamente interessati a lavorare in modo positivo vi sono criticità che restano tali sia dal punto di vista dei responsabili politici e tecnici municipali, che nella prospettiva dei cittadini attivi: ad esempio in merito all’uso di un bene privato come bene comune la criticità riguarda il fatto che la comunità che se ne prende cura venga in qualche modo garantita; un altro tema non facile riguarda il capitolo della partecipazione di soggetti privati come contraenti dei patti nel rispetto delle norme che regolano la concorrenza e la trasparenza rispetto ai comuni.
Tali motivazioni contro, tecniche e politiche, non paiono tuttavia in grado di fornire un’alternativa valida rispetto all’invito a orientarsi verso una “sussidiarietà responsabile” per contribuire alla rinascita del nostro Paese. In ogni città italiana oggi è o può diventare uno stile di fare politica nuovo, come un nuovo modo di essere funzionari, operatori, cittadini, membri di associazioni, creativi eccetera. Chiudiamo con uno dei Patti di collaborazione a questo proposito più emblematici.
Box 4. Attivarsi progettando insieme e autocostruendo dopo la catastrofe: il Patto stipulato a L’Aquila
Il “Patto di collaborazione Square garden” viene stipulato dopo sei mesi di processo partecipativo tra il settore Ricostruzione pubblica del Comune de L’Aquila, un’associazione culturale studentesca e una parrocchia per “[…] riqualificare e riportare a nuova vita lo spazio sottoutilizzato prospiciente la chiesa di Santa Maria Mediatrice, un’area investita di una notevole rilevanza a livello sociale grazie alla sua posizione rispetto all’abitato” e “Al fine di restituire uno spazio alla socialità che sia anche sostenibile, il progetto propone l’allestimento permanente di elementi di arredo urbano in autocostruzione partecipata e l’utilizzo di materiali di recupero”; “In tale ottica, il presidente dell’associazione Eidos ha richiesto la donazione, da parte del Comune di L’Aquila, di materiale di risulta derivante dai cantieri della ricostruzione”. In concreto la parrocchia mette a disposizione il proprio spazio e l’associazione il proprio saper fare. Questo progetto/processo ha vinto il premio Smart Communities SMAB 2015. Lo spazio prospiciente la chiesa è stato scelto dopo un anno di azioni di mappatura collettiva e di passeggiate di quartiere a cui hanno partecipato circa 70 cittadini e 30 associazioni. “L’intervento prevedeva la realizzazione di una pedana in legno dotata di sedute. Decine di incontri di co-progettazione con il Consiglio Territoriale di Partecipazione N.8 (ex Circoscrizione), la parrocchia di S. Maria Mediatrice e tutte le associazioni coinvolte per progettare insieme l’area lo hanno arricchito del prolungamento della staccionata a protezione dell’intera zona verde nonché di un’area giochi per bambini e sedute nel verde […] Le fasi di realizzazione saranno coadiuvate direttamente dai cittadini del quartiere durante giornate di autocostruzione […] L’iniziativa è stata definita dalla stampa locale un piccolo “miracolo” per lo spirito di coesione che ha animato cittadini, associazioni e istituzioni attorno al recupero di uno spazio urbano, ancora segnato dalle conseguenze del sisma, e per il rilancio sociale a beneficio del quartiere.” (Baglione et al, 2016).
Bibliografia
Arena G. (2006) Cittadini attivi. Un altro modo di pensare all’Italia, Laterza, Roma/Bari
Arena G., Iaione C. (a cura di) (2015) L’età della condivisione. La collaborazione tra cittadini e amministrazione per i beni comuni, Carocci, Roma
Baglione V. et al. “Costanza e sinergia: ingredienti per il primo patto di collaborazione a L’Aquila” in Labsus 25 luglio 2016
Dolci L. “Welfare di comunità. Rigenerare valore sociale nel lodigiano” in Labsus 7 giugno 2016
Gallent N., Ciaffi D. (a cura di) (2014) Community action and planning. Contexts, drivers, outcomes, Policy press, Bristol
Lanzara G.F., Pardi F. (1980) L’interpretazione della complessità. Metodo sistemico e scienze sociali, Guida, Napoli
Labsus Redazione “Il lago di Bracciano bene comune. Il 21 febbraio si presenta il Regolamento” in Labsus 18 febbraio 2015
Manfrini M.G. “Welfare a Km zero: l’iniziativa della Cassa di risparmio di Trento e Rovereto” in Labsus 22 maggio 2016
Marocchi G., Novarino M. “Le attività di interesse generale” in Welfare oggi n.3, 2016
Tonucci F. (2005) La città dei bambini. Un modo nuovo di pensare la città, Laterza, Bari
Vecchiato T. “Se il marketing si appropria del welfare generativo” in Vita n.4 aprile 2014