«Per favore chiudete Garanzia giovani», «Continuare con Garanzia giovani è un disastro!» : è così che il programma di sostegno e potenziamento dell’occupabilità dei Neet, lanciato in Italia il 1 maggio 2014 è stato salutato negli ultimi giorni del 2015.
Che la Garanzia giovani fosse giudicata da molti un’autentica fregatura non ci sorprende, soprattutto dopo mesi di articoli e trasmissioni televisive che hanno raccontato le numerose storie di giovani «vittime» del famigerato programma. A ben guardare (o meglio ascoltare), le lagnanze dei malcapitati sono state spesso rivolte ad aspetti solo in parte imputabili al disegno complessivo della Garanzia giovani quali, ad esempio, le limitate offerte e le proposte di bassa qualità da parte di datori di lavoro «senza scrupoli» oppure i ritardi dell’Inps nei pagamenti dei bonus per i tirocini.
È bastata inoltre la dichiarazione del Ministro Poletti, intenzionato a chiedere all’Unione europea di continuare a investire sulla Garanzia giovani, per suscitare lo sdegno di diversi commentatori. Per molti, infatti, si tratterebbe solo di soldi sprecati.
In molti pensano che i numeri della Garanzia giovani – per citare le parole del Presidente del Consiglio – non siano stati la «botta di vita» in cui poter sperare. Difficile sostenere il contrario, soprattutto a fronte di aspettative mal poste. Ma al di là di questa ovvia considerazione, sarebbe interessante tentare un semplice esercizio: comparare la Garanzia giovani a qualche altro programma di politiche attive del lavoro che: (1) sia stato lanciato su larga scala in Italia (non in Danimarca o Germania); (2) non sia solo di corto respiro e (3) abbia ottenuto risultati lusinghieri. Si accettano proposte e suggerimenti, perché questo sì che sarebbe un bel modo per iniziare una discussione.
In questa breve e non conclusiva riflessione proveremo prima a illustrare l’esperienza di un’altra Garanzia giovani, diversa da quella raccontata dai giornali. Successivamente, ci soffermeremo su alcune difficoltà che sono legate all’impostazione che la Garanzia giovani ha adottato in Italia (in Europa ogni Garanzia giovani ha infatti avuto una sua specifica declinazione nazionale). Infine, chiuderemo con qualche spunto a favore di una «Garanzia adulti».
Qualche dato in controtendenza
Sgombriamo subito il campo da possibili fraintendimenti: le numerose critiche rivolte alla Garanzia giovani sono più che legittime e vanno prese in seria considerazione. Esse comunque non sembrano trovare piena conferma nei risultati di un’analisi strutturata condotta dall’Isfol negli ultimi mesi del 2015. Si tratta di un’indagine promossa all’interno di un più vasto programma di monitoraggio che l’Istituto continuerà a condurre nei prossimi mesi e che è finalizzato a restituirci un quadro accurato di ciò che la Garanzia giovani ha fatto (non dimentichiamoci che l’implementazione del programma è ancora in corso).
Il rapporto evidenzia alcuni aspetti interessanti, perché in controtendenza rispetto alle più convinte critiche alla Garanzia giovani.
Primo: l’indice di copertura, vale a dire il rapporto tra utenti registrati e coloro che sono stati effettivamente «presi in carico» è cresciuto nel tempo, passando in media dal 40% a circa il 70%. Anche i tempi di risposta dei servizi per il lavoro hanno registrato col trascorrere dei mesi un andamento positivo: i «presi in carico» entro due mesi dalla registrazione sono passati da un dato medio del 42% nel periodo luglio-dicembre 2014, a risultati superiori al 65% tra aprile e agosto 2015.
Secondo: nei primi mesi di avvio del programma si riscontrava un chiaro processo di (auto-)selezione tale per cui gli iscritti erano soprattutto i giovani con minori difficoltà di inserimento lavorativo. Il loro indice di profiling era infatti mediamente più basso (pari a 0,67) dell’indice di profilazione calcolato sulla popolazione di Neet stimata dall’Istat (pari a 0,72). Questa (auto-)selezione è ancora più marcata se si considerano i destinatari effettivi delle misure che mostrano un indice di profilazione standardizzato pari a 0,65. È però interessante notare come, con il passare del tempo, sia cresciuta la quota dei «presi in carico» più distanti dal mercato del lavoro. Si tratta di un miglioramento che, seppur contenuto, sembra significativo e non appare solo merito della revisione del sistema di profilazione. Un ulteriore dato che sarebbe importante rilevare e analizzare, ma che al momento non è disponibile, è quello relativo all’indice di profilazione dei destinatari delle misure erogate dalle agenzie per il lavoro.
Terzo: la Garanzia giovani ha spinto alcune regioni a riprogettare ex novo l’intera architettura del Sistema informativo lavoro. Laddove invece questa architettura era già esistente ed efficace, l’adattamento agli standard voluti dalla Garanzia giovani ha comportato, a detta dei ricercatori dell’Isfol, un processo di ottimizzazione.
Quarto: i dati più sorprendenti, soprattutto alla luce del dibattito sui media italiani, appaiono essere quelli connessi al grado di soddisfazione degli utenti. Lo studio condotto dai ricercatori dell’Isfol è stato realizzato su un campione di 360 mila giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni che risultavano iscritti alla Garanzia giovani a fine maggio 2015. Quali sono stati i principali risultati?
Uno degli impatti del programma è stato quello di avvicinare una nuova utenza ai Centri per l’impiego (Cpi): il 41,5% dei giovani che hanno sottoscritto il patto di servizio non aveva avuto precedenti contatti. Guardando ai Neet destinatari dei servizi, i giudizi sul grado di soddisfazione in merito al funzionamento delle strutture coinvolte appaiono più che buoni, con un gradimento che oscilla tra il 70% e l’82%. Inoltre, gli utenti non dichiarano di essere delusi dai servizi ricevuti: al contrario, circa il 74% di coloro che hanno avviato o concluso una misura ha espresso una valutazione in linea o superiore con le loro aspettative. Si potrebbe malignamente obiettare che tale percezione sia stata influenzata dal generale clima di sconforto e sfiducia che ha portato a un ribasso delle attese. Ma più dell’80% dei giovani che hanno svolto o stavano svolgendo un’attività grazie a Garanzia giovani ha valutato tale esperienza come molto o abbastanza utile per aumentare le proprie competenze e per accrescere la propria consapevolezza.
In sintesi, si poteva fare di più e meglio. Ma i dati del Rapporto dell’Isfol restituiscono un’altra immagine della Garanzia giovani: un programma che è «entrato a regime» molto lentamente, ma che – quando e laddove l’ha fatto – ha incominciato a produrre alcuni risultati, perlomeno in termini di rafforzamento dell’occupabilità delle persone (più che di creazione o promozione dell’occupazione giovanile: obiettivo nobile e cruciale, ma al di fuori dello scopo e della portata della Garanzia giovani). In altre parole, la Garanzia giovani, stando al rapporto dell’Isfol, sembra aver prodotto un servizio discreto nei confronti della platea di utenti che è riuscita a gestire, molti dei quali non si erano mai rivolti a un servizio per l’impiego. Rimane comunque il problema di tutti coloro non intercettati dal programma o che si sono iscritti alla Garanzia giovani senza riuscire a ricevere in tempi ragionevoli una prima e adeguata risposta. Così come manca ancora un’attenta verifica degli esiti delle «prese in carico», che non dovrebbero essere valutati solo guardando agli inserimenti lavorativi, nonché delle ragioni alla base dei casi di successo apparentemente inaspettati della Garanzia giovani.
Occorrono dunque ancora analisi e riflessioni più approfondite che potranno giungere proprio da un aggiornamento dei lavori dell’Isfol, così come da altre ricerche condotte in «parallelo».
Sui limiti del disegno della Garanzia giovani
Una parte delle difficoltà della Garanzia giovani realizzata finora in Italia può essere ad ogni modo compresa esaminando le principali caratteristiche della sua impostazione originaria. Ovviamente l’analisi di tali aspetti non esaurisce l’insieme dei fattori che hanno influenzato la performance di tale programma, ma aiutano a riflettere su alcune conseguenze derivanti dal disegno della Garanzia giovani.
Come abbiamo già avuto modo di osservare altrove, il governo italiano ha scelto di impostare il piano di attuazione della Garanzia giovani incentrandolo sull’adozione di un nuovo sistema di governance delle politiche attive del lavoro. Si tratta di un’impostazione che appare comprensibile alla luce della necessità di riforma del sistema dei servizi per l’impiego da tempo segnalata in letteratura e tra l’altro ben nota ad alcuni dei policy designers nazionali. Questa scelta ha dunque avuto il pregio, almeno in teoria, di essere portatrice di una visione di medio-lungo termine (una «strategia di policy»), essendo indirizzata a facilitare un processo di cambiamento che andava al di là della realizzazione di un programma d’intervento temporalmente circoscritto. Essa ha tuttavia comportato, per forza di cose, un orientamento del disegno originario (ma non delle risorse finanziarie) sugli aspetti di «sistema», assumendo che il resto «sarebbe seguito» (il vecchio errore dell’intendance suivra).
Ciò che è rimasto sotto traccia (o poco sviluppato) è l’analisi dei meccanismi di implementazione, calati nei contesti operativi effettivi, e dei tempi di realizzazione delle misure o ancora della possibilità di avviare interventi mirati di formazione-lavoro già nei primi mesi di lancio del programma (occorrerà attendere l’autunno del 2015 per la realizzazione di «Crescere in digitale» come primo esempio specifico). Questo imprinting della Garanzia giovani ha generato, a sua volta, una serie di difficoltà sia nei confronti dell’utenza finale, sia degli operatori.
Innanzitutto, sono emerse chiare tensioni tra la possibilità di avviare iniziative estemporanee, che avrebbero potuto essere soddisfatte nel breve periodo senza però riuscire a produrre effetti durevoli, e interventi di riforma più profonda, che avrebbero potuto dare risultati solo nel lungo termine, stante le note condizioni di contesto di partenza e lo stato dei Centri per l’impiego in Italia.
Questa tensione è stata aggravata dalla stringente tempistica della Garanzia giovani e dalle sue regole decise a livello sovranazionale. Nei primi mesi del 2014, il ministro Poletti raccolse infatti l’impostazione originaria della Garanzia giovani, così come pensata dalla Struttura di missione, e diede rapidamente il via alla sua realizzazione, cogliendo di fatto impreparati larga parte degli operatori sul territorio. L’impegno di spesa dei finanziamenti europei stanziati per la Garanzia giovani andava infatti realizzato entro il 2015 e ogni ulteriore ritardo avrebbe probabilmente aggravato la situazione. Allo stesso tempo, nel mese di luglio 2014 si sarebbe avviato il semestre italiano di Presidenza dell’Unione europea: il governo Renzi stava cercando di costruirsi una credibilità internazionale, basata anche sulla capacità di realizzare importanti riforme nell’ambito delle politiche del lavoro, e dunque non poteva mostrarsi in difetto su questo fronte.
La necessità di agire in fretta ha portato a una sottovalutazione della strategia di comunicazione della Garanzia giovani, che è stata presentata inizialmente come una «svolta storica» o una «misura salvifica». Ciò ha creato prima elevate aspettative da parte di migliaia di giovani e successivamente un generale malcontento, spesso enfatizzato dai media, dovuto alle mancate o lente risposte e alla cattiva gestione di alcuni aspetti (si pensi in particolare ai ritardi del pagamento nei bonus ai giovani tirocinanti).
Malcontento che si registra anche con riferimento agli operatori a cui si è imposto un cambiamento dall’alto da realizzare in tempi stretti e con risorse umane non solo già scarse in partenza, ma in netto calo. In altre parole, occorreva rivedere rapidamente le prassi organizzative per fare fronte a una crescita improvvisa del flusso di domande di servizi, a cui dover rispondere teoricamente entro quattro mesi. Si trattava dunque di uno sforzo organizzativo non trascurabile, da realizzare però in un contesto recessivo e a fronte non solo dei ritardi e delle lacune storiche del sistema dei servizi per l’impiego, ma anche di uno scenario di contrazione delle risorse disponibili e di incertezza istituzionale.
In conclusione, con la realizzazione della Garanzia giovani si è cercato di dare una prima risposta a un intento molto ambizioso: avviare una strategia di policy che avrebbe potuto fare da apripista a un piano di intervento più ampio. Non si trattava dunque di dare semplicemente esecuzione a una linea di finanziamento di progetti e iniziative destinata a esaurirsi. Al contempo, sarebbe risultato ingenuo credere all’illusione di poter attuare una strategia così impegnativa senza incontrare grandi difficoltà. Al contrario, era facile prevedere che la sua realizzazione avrebbe comportato numerose correzioni di rotta in itinere, dunque la necessità di pensare fin dall’inizio a un approccio adattivo e «intelligente» (à la Lindblom), capace di apprendere e cambiare. L’impostazione originaria della Garanzia giovani si è infatti scontrata con alcuni limiti.
Primo, è mancata la possibilità e capacità di gestire il tempo necessario alla realizzazione di un cambiamento profondo. Un cambiamento, tra l’altro, che la Garanzia giovani non può realizzare da sola: è un errore infatti riflettere sulla Garanzia giovani, guardando semplicemente alla Garanzia giovani. In altre parole, per immaginare una possibile revisione del disegno di questo programma occorre farlo in connessione a un più complesso sistema di interventi, un policy portfolio, composto da una pluralità di strategie in diversi settori di intervento e con il coinvolgimento di soggetti posti a differenti livelli di governo. Intesa come strumento isolato, pilotato dall’alto e gestito separatamente, qualsiasi Garanzia giovani in Italia sarà invece sempre destinata a fallire.
Secondo, si è trascurato un aspetto importante, ovvero il difficile legame tra il disegno «in astratto» e quello «nel mondo reale». Ciò appare chiaro se si considera lo scarso affinamento dei meccanismi e dei processi di attuazione. I lavori di progettazione e gli incontri ministeriali con le regioni sono stati infatti dedicati per lo più a definire e poi illustrare alcuni contenuti del disegno definito a livello statale (target, misure, principi di governance, modalità di rendicontazione), mentre le implicazioni derivanti dai processi di implementazione di quest’ultimi sono rimasti sullo sfondo. In realtà, la riflessione ex ante sui meccanismi di implementazione dovrebbe essere tenuta in stretta considerazione fin dalle fasi di progettazione degli interventi. Alcune correzioni di rotta sono state intraprese strada facendo, ma altre ne occorreranno, prestando in particolare attenzione a quanto indicato dagli operatori presenti nei vari territori.
Terzo, l’incapacità dei Centri per l’impiego di rispondere prontamente alle attese create e lo sfasamento temporale tra l’annuncio di iniziative e la loro concreta e parziale realizzazione ha creato molte delusioni e risentimenti nei confronti di un programma che è stato dipinto dai mass media come l’ennesima occasione mancata. La rincorsa alla sua implementazione si è spesso tradotta in un’attività in difesa, tipica di un’amministrazione che opera in emergenza. Ciò ha finito con il depotenziare, se non vanificare, la capacità trasformativa della Garanzia giovani, così come originariamente pensata dal «centro».
Quarto, il disegno nazionale si è dunque rivelato non sorretto da adeguati presupposti per poter attecchire in tempi rapidi, a cominciare dal contesto economico poco favorevole e dalle scarsissime risorse organizzative necessarie per far fronte al nuovo importante flusso di domande da parte dei giovani Neet. In particolare, l’implementazione della Garanzia giovani è stata realizzata in un contesto di cambiamenti istituzionali, che hanno avuto anche un significativo impatto sulle già limitate risorse investite per i Centri per l’impiego. Il riordino delle funzioni precedentemente svolte dalle Province, tra cui i servizi per l’impiego, si è realizzato in un quadro di forte incertezza in merito alla capacità da parte delle amministrazioni regionali di sostenere i costi dei servizi trasferiti, nonché di contrazione del già limitato personale disponibile. Nel 2015 sono stati stanziati dal governo 140 milioni euro per i centri per l’impiego, a fronte di una spesa a regime per il personale stimata in 210 milioni di euro, ed è stata prevista una ripartizione delle spese nella misura dei 2/3 imputati all’amministrazione statale e di 1/3 alle regioni. Si tratta però di un impegno giudicato da molti insufficiente per un Paese che nel complesso vanta un investimento nei servizi per l’impiego tra i più bassi d’Europa. La spesa per i Cpi italiani rapportata al prodotto interno lordo è di circa 10 volte inferiore a quella della Germania. Per un raffronto in termini assoluti, si consideri che nel 2013 la Francia ha speso quasi 5,3 miliardi di euro per i servizi al lavoro, contro i 461 milioni dell’Italia. Come mostrano anche altre esperienze internazionali, a cominciare da quella dell’Olanda, perfino uno scenario di rafforzamento significativo del ruolo dei servizi privati al lavoro, in sostituzione di quelli pubblici, appare inverosimile in mancanza di investimenti significativi (e questo dovrebbe suggerirci qualcosa sulla futura implementazione dell’assegno di ricollocamento).
Quinto, anche quando alcune opportunità sono state messe effettivamente in moto, queste hanno talvolta portato a una classica eterogenesi dei fini. Il caso più lampante è quello dei tirocini (ovviamente non tutti), come porta di ingresso per il mercato del lavoro. In un Paese in cui manca una cultura dell’apprendistato e del tirocinio e si confonde attività formativa con lavorativa o l’indennità di stage con il salario, è chiaro che il rischio di azzardo morale risulti alto. Con l’effetto perverso che una misura pensata per favorire l’acquisizione di prime esperienze e competenze on-the-job, passi per l’essere intesa come una trappola, dove lo Stato diventa complice nel finanziare stage che risultano poi «lavoretti temporanei sottopagati» proposti dalle aziende.
Di recente, il governo ha pensato di agire su questo fronte modificando la disciplina degli incentivi della Garanzia giovani. È infatti prevista l’erogazione di un Super bonus occupazionale, raddoppiando gli importi dei bonus per le assunzioni dei Neet, per le aziende che assumono un giovane impegnato in un tirocinio promosso nell’ambito della Garanzia giovani. Tale Super bonus riguarda solo i tirocini che saranno avviati entro il 29 febbraio 2016 e potrà essere fruito dai datori di lavoro che attiveranno un contratto di lavoro a partire dal 1 marzo 2016 e fino al 31 dicembre 2016. Si tratta di una presa di coscienza importante, volta a frenare il rischio che la Garanzia giovani diventi un inutile «stagificio», anche se l’iniziativa rimane ancorata a un’ottica di intervento basata solo su sistemi di incentivazione economica. È chiaro che questa prospettiva appare, a fronte di risorse scarse, di più facile implementazione, ma risulta schiacciata su una logica economista. Per rispettare la lettera della Raccomandazione sulla Garanzia giovani del 2013, dove si richiedeva di mettere a disposizione «un’offerta qualitativamente buona di occupazione, proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio», occorrerebbe invece investire con determinazione sulla qualità dei servizi chiamati a orientare i giovani e a seguirli almeno nelle prime fasi di ingresso nel mondo del lavoro (follow-up). Ma per far questo la strada maestra è una sola: potenziare il rapporto diretto con le aziende del territorio.
Per una Garanzia adulti
I problemi che hanno accompagnato dall’interno la Garanzia giovani sono dunque numerosi. A questi si aggiungono diverse critiche esterne, che mirano alla Garanzia giovani in quanto tale. A tal proposito, mi viene in mente la storiella di quell’uomo che rivolgendosi a un astante per domandargli se la strada che stava percorrendo fosse diretta a Copenaghen, aveva ottenuto la seguente risposta: «sì, ma potrebbe arrivarci partendo da un’altra parte».
Forse l’astante non ha del tutto torto, ma più che «chiudere con la Garanzia giovani», occorre riflettere con estrema attenzione su come perfezionarla ed estenderla per quello che è e può realisticamente diventare. Di fatto, a seguito dell’adozione del Decreto legislativo 150/2015, la volontà di costruire una nuova rete nazionale dei servizi per le politiche del lavoro rappresenta un chiaro segnale da parte del governo verso la costruzione di una «Garanzia adulti», ovvero un sistema integrato di servizi al lavoro moderno e (minimamente) efficace per tutti.
La strada è molto lunga e disseminata di ostacoli. Sicuramente vi sono logiche burocratiche ancora da superare e numerose resistenze. Inoltre occorre un chiaro e forte investimento sulle infrastrutture (informative e per la valutazione) e sulle risorse umane.
Promettere una Garanzia adulti significa prima tutto sviluppare la capacità di «prendersi carico» delle persone, offrendo servizi pubblici e privati degni di questo nome, in un’ottica di (ri)generazione delle capacità. È anche in questo modo che si costruisce la cittadinanza sociale e si esercita e manutiene la democrazia.
Ma è irrealistico pensare che questi servizi, volti a facilitare le molteplici e possibili «transizioni» che interessano la vita dei lavoratori, possano essere erogati «a costo zero». Soprattutto a fronte di uno scenario, quale quello disegnato dal Jobs Act e dai provvedimenti di contrasto alla povertà, che prevede un ruolo ancora più strategico dei Centri per l’impiego, ovvero – tradotto – uno sforzo accresciuto per gestire i nuovi flussi di giovani, adulti disoccupati, cassaintegrati, persone indigenti e a rischio di esclusione sociale.
Oggi non siamo ancora in grado di fronteggiare questa sfida. Ma questa ovvia considerazione deve essere intesa come uno sprone per proseguire e perfezionare la strada appena intrapresa e non come un semplice, inutile invito a gettare all’aria i progetti del «passato».