Era il lontano 2013 quando prendeva forma in Italia il primo piano nazionale per l’attuazione del programma europeo Garanzia Giovani. In quell’anno governava il centro-sinistra con Letta e l’allora Ministro del Lavoro Enrico Giovannini volle predisporre un piano ambizioso, che mirava sia ad affrontare un problema specifico – l’elevato numero di NEET – sia ad aggredire alcune annose disfunzioni del sistema italiano dei servizi per l’impiego. Si trattava di avviare un’iniziativa su scala nazionale che avrebbe dovuto successivamente innestarsi in una più ampia strategia di riforma posta parzialmente in essere con il «Jobs Act» e la «Buona Scuola» del governo Renzi.
La Garanzia Giovani non venne però accolta con grande entusiasmo, anche perché si addensarono fin da subito nuvole oscure sulla sua capacità di produrre cambiamenti concreti. A quasi cinque anni dal suo avvio è però possibile osservare qualche risultato interessante. Le persone prese in carico sono state 1.066.7020, il 77,7 % delle persone ufficialmente iscritte al programma (1.373.480). Tali dati si riferiscono all’ultimo monitoraggio disponibile, datato 31 agosto 2018, e sono riportati nel rapporto n. 2/2018 pubblicato dall’ANPA.
Tra le misure più utilizzate nell’ambito della Garanzia Giovani spiccano i tirocini (il 58,5% del totale) e gli incentivi occupazionali (24,1%). Questo dato può destare più di un sospetto sulla capacità del programma di favorire inserimenti nel mercato del lavoro durevoli e soprattutto «di qualità». Ad ogni modo, occorre tenere presente che circa il 48% dei tirocinanti di Garanzia Giovani ha ricevuto un’offerta di lavoro dal datore che li avevi accolti, mentre il 30,6% è stato assunto potendo sfruttare le incentivazioni offerte. Più in generale, al 31 agosto 2018, il tasso di inserimento occupazionale di coloro che hanno concluso un intervento promosso da Garanzia Giovani è del 52,6%, pari a 550.664 persone. Tra coloro i quali sono occupati a sei mesi dal termine della partecipazione a Garanzia Giovani, il 38,3% ha un contratto di apprendistato, il 32,6% un contratto a tempo indeterminato e il 25,5% a termine.
Questi dati non sembrano dunque descrivere un disastro, soprattutto se letti alla luce del fatto che la Garanzia Giovani è stata realizzata in buona parte dai centri dell’impiego in una condizione di emergenza gestionale (con l’eccezione del Piemonte e della Lombardia, dove l’implementazione della misura è stata perlopiù realizzata da agenzie per il lavoro private). Esprimere un giudizio netto sul programma e i suoi effetti rimane comunque difficile se ci si limita a un monitoraggio di alcuni risultati, senza aver svolto una loro valutazione puntuale.
Al di là delle cifre, la Garanzia Giovani avrebbe dovuto rappresentare un tassello di una strategia più ampia, una politica per l’occupazione rivolta ai giovani, in particolare a coloro che si trovavano in una condizione di maggior bisogno e rischio. Questa politica avrebbe dovuto incentrarsi su tre priorità.
La prima priorità riguarda la disoccupazione e inattività giovanile di lungo periodo. Uno dei problemi centrali è costituito dal rischio di permanere a lungo in una situazione di mancato inserimento lavorativo, senza tra l’altro riuscire a investire il proprio tempo e risorse in altre attività di crescita personale e professionale. È chiaro che una condizione di disagio che si protrae nel tempo tende ad aggravarsi e avvitarsi su se stessa, rendendo difficile l’attivazione di valide vie d’uscita. Il principio dell’intervento rapido e precoce dovrebbe dunque essere preservato e posto concretamente al centro del disegno delle politiche per l’occupazione giovanile. La declinazione di tale principio in azioni concrete deve inoltre tener presente l’eterogeneità della categoria dei cosiddetti NEET che, per esempio, vanta nel nostro paese anche un elevato numero di giovani «scoraggiati». In sintesi, senza un’attenta analisi delle ragioni che accompagnano lo status di NEET è difficile che si possano prevedere azioni calibrate.
La seconda priorità concerne la segmentazione del mercato del lavoro che rischia di intrappolare i giovani non tanto in contratti diversi da quelli a tempo pieno e indeterminato (condizione che a detta di alcune «letture» sull’evoluzione del mercato del lavoro potrebbe divenire strutturale), ma in contratti «precari» ovvero di brevissima durata (inferiore a tre mesi), salari inadeguati, condizioni di lavoro di bassa qualità e serie difficoltà nell’avviare o consolidare percorsi di crescita professionale. Si tratta insomma di evitare che i giovani rimangano condannati nel girone dei «cattivi lavoretti». Intervenire solo con incentivi occupazionali più mirati spesso non basta, anche perché, come mostrato da alcune esperienza passate, vi è il forte rischio di scontare un basso take-up rate. Al contrario, occorre agire sul lato della domanda di lavoro, per esempio con investimenti nei settori della sanità, dell’amstrazione e dell’istruzione pubblica che potrebbero andare a tutto vantaggio dell’assunzione di giovani qualificati (sul punto si veda per esempio questo articolo di Reyneri per LaVoce.info).
La terza priorità si riferisce al limitato investimento non solo nella domanda di lavoro «di qualità», ma anche in ciò che la precede e soprattutto l’accompagna, ovvero nei sistemi educativi e/o di formazione professionale, compresa la diponibilità di esperienze di tirocinio di qualità. Il tema in questo caso spazia dall’alternanza scuola-lavoro e dall’apprendistato mai veramente decollato in Italia, fino alla scarsezza di risorse spese per l’università e nella «ricerca & sviluppo». In sintesi, occorre dirottare una quota consistente di risorse pubbliche verso «beni di stimolo» e non solo «beni di comfort» selettivi. Questi ultimi possono garantire l’appagamento di qualche categoria di persone e un’immediata rendita politica, ma finiscono col tarpare le ali ai progetti di crescita solidale e sostenibile di medio e lungo periodo.
È ovvio che queste priorità non possono essere perseguite da Garanzia Giovani, ma solo da una politica nazionale. Potrebbe sembrare superfluo sottolineare la differenza tra un semplice programma di interventi e una politica pubblica destinata agli stessi obiettivi, ma di più ampia portata. In astratto, le politiche pubbliche possono essere definite come dei «collegamenti», connessioni tra una pluralità di azioni, inazioni e iniziative di diverso genere volte a perseguire obiettivi di rilevanza pubblica.
Sono proprio queste connessioni che mancano o sono molto deboli. Manca in sostanza una politica per l’occupazione giovanile, per non dire tout court una politica per l’occupazione. È in questo contesto che la Garanzia Giovani è attualmente in corso di implementazione. Questo programma era nato proprio con la caratteristica di voler essere «interstiziale», di porsi a cavallo, ma soprattutto «a cerniera e complemento» di interventi in diversi ambiti. La Garanzia Giovani era stata pensata per rafforzare la necessità di lavorare sul potenziamento e la costruzione di buone «connessioni» tra i servizi pubblici e privati del lavoro, l’area della formazione, della scuola e università e del mondo del lavoro. Pensare per «connessioni» significa prestare attenzione a come affrontare in modo sinergico le tre priorità a cui ho fatto riferimento.
Ma la riflessione e le scelte strategiche su queste connessioni sembrano mancare o perlomeno non essere oggetto di dibattito pubblico e di una chiara scelta. Per fare alcuni esempi, posto che l’attuale governo ha deciso di ridurre il monte ore (e gli investimenti) per l’alternanza scuola-lavoro, quale strategia alternativa sottende a tale decisione? Come il sistema di alternanza scuola-lavoro rinominato nella legge di bilancio 2019 «percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento» dovrebbe svilupparsi, correggendo i limiti dei precedente approccio, e quale tipo di innesto potrebbe essere previsto con il programma Garanzia Giovani?
Altra domanda. L’attenzione nei confronti del reddito di cittadinanza è stata massima negli ultimi mesi, per ovvie ragioni politiche. Così come configurato, il Reddito di cittadinanza (RdC) dovrebbe interessare anche una parte dell’utenza tipica della Garanzia Giovani (GG), i NEET adulti come i possibili percettori del sussidio e, più in generale, tutti i NEET componenti del nucleo familiare in cui vi sia un percettore del RdC. Nella revisione del piano di attuazione della Garanzia Giovani era stata introdotta una nuova misura indirizzata ai NEET più lontani dal mercato del lavoro e in qualche modo legata al «vecchio» reddito di inclusione. Quali saranno le possibili «connessioni» tra la Garanzia Giovani e il RdC? Sul piano operativo, come sarà realizzato l’intreccio tra il reddito di cittadinanza e Garanzia Giovani ? I cosiddetti «navigator» avranno una funzione specifica nei confronti dei giovani in cerca di occupazione o di un valido percorso formativo e come le piattaforme di registrazione e gestione dei servizi previsti da GG e RdC dialogheranno?
Queste e molte altre domande rimangono al momento inevase. A meno che non si pensi che la politica per l’occupazione giovanile debba limitarsi alla speranza di un turnover generazionale dovuto alle riforme pensionistiche (speranza che, nel lungo periodo, è sconfessata da numerosi studi) o alla concessione di incentivi alle imprese in continuità con quanto già fatto dai precedenti governi di centro-sinistra (considerati però come l’Ancien régime da parte dell’attuale esecutivo).
Uno strumento come Garanzia Giovani non integrato in una politica nazionale difficilmente può produrre effetti significativi. Ma per realizzare tale politica, occorre prima di tutto avere una visione, un disegno. Occorre in sostanza avere il senso di che cosa significhi sviluppare connessioni e complementarietà.