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A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, l’apprendistato è stato posto al centro dell’attenzione di numerosi provvedimenti legislativi. In risposta agli alti livelli di disoccupazione giovanile e dispersione scolastica, tale strumento è stato caricato di importanti aspettative riguardanti la gestione delle transizioni scuola-lavoro, la lotta all’abbandono scolastico e la preparazione dei giovani per lo svolgimento di lavori qualificati.

Il recente decreto legislativo 81/2015 di riordino dei contratti di lavoro, quarto atto del Jobs Act entrato in vigore il 25 giugno scorso, costituisce l’ultima delle ripetute modifiche strutturali che hanno interessato tale istituto contrattuale. In questo articolo, ci proponiamo di ripercorrere brevemente le principali tappe del percorso di riforma dell’apprendistato in Italia, per tracciare un quadro di quelle che oggi sono le sue principali caratteristiche.

 

I tentativi per rilanciare lo strumento

Nel nostro paese l’apprendistato ha una lunga storia, essendo stato introdotto già nel 1955. Nel 1997 la legge Treu ha elevato il limite di età per l’assunzione da 20 a 24/26 anni, abolendo inoltre i vincoli settoriali al suo utilizzo. La conseguente espansione del numero di apprendisti ha fatto emergere l’esigenza di distinguere una pluralità di percorsi di accesso a questo strumento. La riforma Biagi ha infatti modificato profondamente l’istituto, ampliandone ulteriormente la platea di riferimento e includendo le fasce più qualificate, i laureati. L’apprendistato è stato articolato in tre livelli, introducendo una caratteristica strutturale del sistema italiano destinata a durare tutt’oggi. Di particolare importanza ai fini della nostra trattazione è la differenza tra l’apprendistato di secondo livello, finalizzato a una qualifica contrattuale e maggiormente distaccato dal sistema di istruzione e formazione (quindi con caratteristiche più tradizionali), e gli apprendistati "scolastici" di primo e terzo livello, mirati al conseguimento di un titolo di studio per mezzo di un’alternanza scuola-lavoro.

La riforma Biagi si inscriveva all’interno di una dinamica di espansione dell’istituto, tuttavia la complessa architettura istituzionale prefigurata ha incontrato forti difficoltà di implementazione. Questi elementi di criticità sono stati inoltre acuiti dall’impatto della crisi economica, che tra 2008 e 2009 ha fortemente contribuito all’inversione della tendenza espansiva perdurante da oltre un decennio. In seguito il decreto legislativo 167 del 2011, risultato di mesi di lunghe negoziazioni tra Governo, regioni e parti sociali, ha riformato la disciplina dell’apprendistato, abrogando la normativa preesistente e riunendo in un Testo Unico (TU) le precedenti norme che erano intervenute nella regolazione dell’istituto.

Il TU ribadiva la centralità dell’apprendistato nelle strategie di inserimento lavorativo, definendolo un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato al duplice obiettivo (causa mista) della formazione e occupazione dei giovani. Tale provvedimento manteneva la struttura tripartita introdotta dalla legge Biagi, pur procedendo a una parziale riorganizzazione delle tipologie. L’elemento più rilevante del TU risiedeva probabilmente nell’introduzione di un sistema di governance multilivello dell’apprendistato attraverso la costituzione di un network di cooperazione tra Governo centrale, regioni e parti sociali.

Il sistema del “nuovo apprendistato” introdotto dal TU ha rivestito un ruolo centrale anche nella successiva riforma del mercato del lavoro attuata dal Ministro Fornero. Alle modifiche su vincoli di stabilizzazione attuati dalla legge 92/2012 si è accompagnato l’avvio di un’importante strategia di promozione e rilancio dell’istituto (guardando soprattutto alla Germania), finalizzato a legittimarlo come “canale privilegiato di accesso dei giovani al mondo del lavoro”. Sulle basi di una collaborazione con l’allora Ministro del Lavoro tedesco Ursula von der Leyen, di ripetuti incontri e missioni di studio in Germania, era stato elaborato infatti un programma di interventi specifici e commisurati alle tre tipologie di apprendistato. Ciò che preme sottolineare in questa sede è come tale strategia, che ha avuto per la verità vita breve, si caratterizzasse per una certa continuità rispetto alla logica sistemica introdotta dal TU.

Dopo il Governo Monti, l’apprendistato è stato al centro di continui interventi normativi di modifica che ne hanno fortemente la stabilità normativa, senza riuscire a innescarne l’auspicata ripresa. Agendo su un sistema ancora lontano dall’essersi consolidato soprattutto dal punto di vista della regolamentazione regionale e della cooperazione tra regioni e attori della contrattazione collettiva, gli interventi legislativi hanno mirato innanzitutto alla semplificazione delle procedure e al progressivo alleggerimento degli obblighi formativi in capo all’impresa (tendenza peraltro rinvenibile già dalla legge Fornero per quanto riguarda l’apprendistato professionalizzante), nonché alla riduzione dei vincoli di stabilizzazione (in queste direzioni si sono mossi, ad esempio, il decreto Giovannini-Letta e il decreto Poletti).

 

Il cattivo stato di salute dell’apprendistato

I dati contenuti nel XV rapporto Isfol sull’apprendistato risultano particolarmente utili nel contestualizzare e identificare i principali connotati dell’attuale sistema di apprendistato italiano, come esito di oltre quindici anni di riforme.

Innanzitutto, se nel 2014 appare finalmente concluso il lungo processo di recepimento e adeguamento delle normative regionali anche per l’apprendistato di I e III livello, ciò è avvenuto con importanti differenziazioni territoriali sia nei tempi sia nei contenuti. Inoltre, il rapporto segnala come una quota rilevante di amministrazioni regionali non abbia ancora attuato le proprie discipline attraverso l’emanazione di Avvisi, bandi, Linee guida volti alla definizione di una offerta formativa pubblica per gli apprendisti e all’individuazione dei soggetti attuatori. Tutto questo riflette dunque l’esistenza di una forte frammentazione territoriale nell’utilizzo dell’apprendistato, la cui diffusione si concentra nell’Italia settentrionale (soprattutto nel Nord-Ovest).

Lo stock medio dei lavoratori occupati in apprendistato risulta ancora in contrazione, seguendo un trend che ha avuto inizio nel 2009: il numero medio di contratti è sceso da 650.000 a meno di 450.000 nel 2014. Nonostante le differenziazioni regionali, questo trend accomuna sia le regioni del Centro-Nord, dove l’apprendistato è maggiormente diffuso, sia le regioni del Sud del paese. Il peso dell’apprendistato sul totale dei rapporti di lavoro avviati continua a essere piuttosto basso (intorno al 2-3%), e il tasso di copertura della formazione pubblica resta fermo al 32% degli apprendisti occupati, a conferma dell’estrema debolezza dell’apprendistato italiano su questo versante. Inoltre, i dati relativi alla durata effettiva dei contratti di apprendistato evidenziano la volatilità che contraddistingue questo strumento contrattuale: solo il 16,5% delle cessazioni avviene al termine del periodo formativo, oltre il 20% di queste si verifica già entro il terzo mese, ma soprattutto appena il 50% dei contratti supera l’anno di durata.

Guardando al tipo di apprendistato e alle caratteristiche degli apprendisti è possibile trarre ulteriori indicazioni rispetto alla configurazione di tale strumento in Italia. Il sistema tripartito soffre di un forte squilibrio laddove la tipologia di contratto professionalizzante copre oltre il 90% dei contratti di apprendistato, mentre nel restante 10% confluiscono i contratti ancora in essere regolati dalla legge Treu, e le altre due tipologie di apprendistato. Nel 2013, l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale contava 3.405 iscritti, di cui 3.000 solo nella provincia di Bolzano, che ha sviluppato una propria struttura in larga autonomia ispirata all’organizzazione del sistema duale tedesco e austriaco. L’apprendistato di Alta formazione e ricerca, sempre nel 2013, ha fatto invece registrare 508 iscritti. La diffusione marginale del I e III livello è connessa anche alla concorrenza con l’apprendistato professionalizzante che, a parità di esenzioni contributive e vantaggi fiscali, rappresenta uno strumento maggiormente flessibile per le imprese, soprattutto visti i minori obblighi formativi. In questo senso, è significativo che tale contratto mostri dopo il 2008 una diminuzione molto contenuta rispetto alle altre tipologie di apprendistato, ed anzi un leggero aumento del numero medio di contratti a partire dal 2012.

Per quanto riguarda la composizione per età della popolazione lavorativa in apprendistato, a una persistente prevalenza di apprendisti assunti tra i 20 e i 24 anni si affianca una crescita della componente dei giovani lavoratori tra 25-29 anni e con più di 30 anni, e una diminuzione di quella di 15-19 anni. La scarsa capacità di questo istituto di fungere da effettivo canale di ingresso nel mercato del lavoro per i più giovani e per coloro che non hanno compiuto un percorso scolastico di livello secondario-superiore è evidenziata anche dal bassissimo numero di apprendisti minorenni.Nel 2013 i minori di età in apprendistato erano 2.592, in drastica diminuzione rispetto ai 7.568 rilevati nel 2010, per un’incidenza sul totale degli apprendisti pari allo 0,6%.

Il quadro complessivo restituito dai dati è dunque quello di un sistema fortemente squilibrato e congelato in una sorta di limbo, laddove il “nuovo apprendistato”, così come era stato regolato dal TU, risulta ancora dominato dall’apprendistato di II livello mentre, al di là delle previsioni e degli auspici normativi, ad oggi le due forme di apprendistato scolastico hanno una diffusione marginale, spesso ancora legata a sperimentazioni e buone pratiche locali che stentano a istituzionalizzarsi. Le caratteristiche attuali del sistema di apprendistato italiano sono dunque sostanzialmente riferibili all’apprendistato di II livello che si connota per una dimensione marcatamente aziendalistica, l’assenza di una compiuta integrazione con il sistema educativo un’utenza sempre più composta da giovani adulti, per una tendenza all’indebolimento della componente formativa come evidenziato dai recenti sviluppi di riforma di tale tipologia contrattuale.

Dal punto di vista dell’impatto occupazionale, i dati dimostrano inoltre come il sistema di apprendistato in Italia non sia risultato uno strumento di policy efficace nel contrastare le difficoltà incontrate dai giovani nel mercato del lavoro. Dopo il 2008 il declino dell’istituto si accompagna alle dinamiche di aumento della disoccupazione giovanile, della quota dei NEET e di diminuzione del tasso di occupazione giovanile (Figira 1).

 

Figura 1 – L’impatto sull’occupazione della popolazione giovanile
Utilizzo dei numeri indice (2007=100) per confrontare serie temporali riferite a tasso di occupazione, NEET, numero medio di contratti di apprendistatoFonte: nostra elaborazione su dati ISTAT, Isfol

Ad ulteriore conferma di quanto detto, i dati relativi al monitoraggio dell’implementazione del Piano italiano Garanzia Giovani attestano la scarsa volontà di ricorrere al contratto di apprendistato nel quadro delle politiche attive di inserimento lavorativo dei giovani in cerca di occupazione. Rispetto al numero totale di opportunità di lavoro pubblicate dalle aziende sul sito di Garanzia Giovani, le offerte di un’occupazione in apprendistato coprono appena l’1,7% del totale dei posti di lavoro disponibili, laddove la maggior parte delle offerte riguarda invece posti di lavoro a tempo determinato e tirocini (rispettivamente 68,7% e 14%).


L’apprendistato ai tempi del Jobs Act

La perdurante bassa diffusione del contratto di apprendistato nonostante le ripetute riforme e la presenza sul territorio nazionale di promettenti sperimentazioni, ha condotto infine, nell’ambito dei provvedimenti di attuazione del Jobs Act, all’adozione del decreto 15 giugno 2015 n. 81. In materia di apprendistato il decreto prevede l’abrogazione del TU del 2011, fatta salva la disciplina transitoria, e una rilevante modifica degli equilibri reciproci tra le tre tipologie, agendo sulla leva della convenienza economica per aumentare la diffusione degli apprendistati scolastici. L’intento di promozione dello strumento si concentra dunque sul I e III livello, ora denominati apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore; apprendistato di alta formazione e ricerca. L’ampliamento delle finalità del I livello si estende al conseguimento, oltre ai titoli del sistema IeFP, a quelli di scuola secondaria superiore e a percorsi IFTS. Il terzo livello conosce una corrispondente riduzione, divenendo finalizzato al conseguimento di titoli dell’istruzione universitaria, ITS, attività di ricerca e accesso a professioni ordinistiche. L’obiettivo è quello della costituzione di un sistema duale integrato di formazione e lavoro, incentivando il ricorso agli apprendistati scolastici di I e III livello rispetto a quello professionalizzante

Anche la riforma de “La Buona Scuola” (legge 107/2015) ha cercato di far fronte al regime di separazione tra sistema educativo-formativo e mondo del lavoro che da tempo caratterizza il nostro sistema di istruzione pubblico. Tale provvedimento punta innanzitutto sull’istituzione di un regime obbligatorio di alternanza scuola-lavoro, ovvero al finanziamento di tirocini curricolari che potrebbero peraltro incontrare, in particolare in alcune aree del paese, alcune importanti difficoltà di attuazione. L’iniziale riferimento al contratto di apprendistato è stato stralciato dal testo definitivo del provvedimento, riconducendo interamente la modifica di tale tipologia contrattuale al già citato decreto 81. Il tentativo di coordinamento tra le due misure trova una propria esplicita espressione nella recente Guida Operativa per l’alternanza inviata dal Miur a tutti i dirigenti scolastici di scuola superiore. Il documento inscrive entrambe le riforme nel quadro dell’Alleanza Europea per gli Apprendistati specificando che i due istituti giuridici rappresentano differenti modalità di collaborazione formativa tra scuola e mondo del lavoro. L’alternanza è infatti definita come una metodologia didattica in cui l’inserimento aziendale non costituisce l’instaurazione di un rapporto lavorativo; l’apprendistato si caratterizza invece per essere un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Quanto al loro legame strategico nell’ottica della transizione scuola-lavoro, l’apprendistato viene tratteggiato come possibile e per certi versi ideale tappa successiva di un percorso di alternanza. Proprio sul piano operativo, tuttavia, permangono ancora dubbi sulle sovrapposizioni tra i due istituti, nonché sulla possibilità che proprio i percorsi in alternanza, per via dei minori oneri procedurali e della gratuità per le imprese, possano ostacolare la diffusione dell’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore.

La promozione degli apprendistati scolastici trova seguito anche nell’accordo sottoscritto in sede di Conferenza Stato–Regioni sul progetto sperimentale recante “Azioni di accompagnamento, sviluppo e rafforzamento del sistema duale nell’ambito dell’Istruzione e Formazione Professionale”. In tale accordo, che dovrebbe coinvolgere 60.000 studenti in percorsi di apprendistato di I livello e alternanza scuola-lavoro, è certamente possibile leggere un tentativo di coordinamento e integrazione delle riforme avviate con il Jobs Act e la Buona Scuola. Inoltre, la Conferenza Stato–Regioni ha approvato lo schema di decreto interministeriale per la definitiva configurazione degli apprendistati “scolastici” (cui dovranno seguire gli adeguamenti normativi regionali per porre così fine all’attuale regime transitorio di vigenza delle disposizioni del Testo Unico).

Non mancano, tuttavia, elementi di segno opposto che fanno dubitare di un’effettiva ripresa e diffusione dell’istituto. Al quadro tracciato occorre in particolare aggiungere una nota spesso sottovalutata nelle discussioni su apprendisti e sistema duale: la rilevanza della dimensione culturale nello sviluppo di uno strumento che non è semplicemente normativo, ma tocca questioni relative alla formazione, all’integrazione delle nuove generazioni nel mercato del lavoro e nella società di appartenenza. In questo senso, il gap culturale dell’apprendistato all’italiana rimanda alla ristretta concezione dell’apprendistato come contratto scarsamente appetibile, diretto per lo più a chi ha avuto forti difficoltà nel percorso scolastico, e riguardante soprattutto occupazioni a basso livello di competenze. L’idea diffusa nel mondo delle imprese e in generale nella nostra società è infatti ancora quella di un apprendistato “informale”, in cui i contenuti del mestiere possono essere appresi semplicemente tramite l’affiancamento e l’osservazione del collega con più esperienza. Non è un caso che il Ministro Fornero e i suoi collaboratori ritenessero necessaria, per la compiuta affermazione dell’apprendistato come canale privilegiato di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, un’ampia operazione di legittimazione culturale che comprendeva, tra le altre cose, campagne mediatiche promozionali e incontri periodici con i sindacati e con le imprese.

Come evidenziato nella prima parte dell’articolo, il processo di riforma del contratto di apprendistato è proceduto negli ultimi anni attraverso continue modifiche normative, indebolendo la logica sistemica del “nuovo apprendistato” che il Testo Unico aveva tentato di introdurre. I continui cambiamenti hanno invece tolto certezze agli operatori e si sono intrecciati alle criticità più profonde e di matrice anche culturale che caratterizzano l’Italia, ostacolando lo sviluppo di un sistema di apprendistato radicato e diffuso, in cui tale contratto rappresenti un effettivo strumento di investimento sociale per la valorizzazione del capitale umano. Questo ha dunque impedito, fino ad oggi, la costruzione di una stabile architettura istituzionale per l’implementazione di un sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro incentrato sulle competenze e la formazione dei giovani. Le nuove riforme si propongono, per l’ennesima volta, ambiziosi obiettivi, modificando le strutture contrattuali e dando avvio ad una nuova stagione di sperimentazioni, sulla scorta di segnali parzialmente incoraggianti che potremo tuttavia valutare solo nel tempo. La rincorsa alla Germania riparte da qui.

 

Riferimenti

Pastore, F. (2014), Il difficile percorso dell’apprendistato

Isfol (2015), Monitoraggio sull’apprendistato. XV rapporto, Roma.

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (2015), Rapporto annuale sulle Comunicazioni Obbligatorie, 2015. Roma.  

Treellle (2013), Educare alla Cittadinanza, al Lavoro ed all’innovazione. Il modello tedesco e proposte per l’Italia, Roma.

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (2015), Dati di monitoraggio sulla Garanzia Giovani. 71° Report settimanale – Aggiornamento al 22 ottobre 2015, Roma

Tiraboschi, M. (2015), Prima lettura del d.lgs. n. 81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro, Bergamo, Adapt University Press.

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (2015). Sistema delle Comunicazioni Obbligatorie. Nota II Trimestre 2015,  Roma. 

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (2015), Attività di Alternanza Scuola Lavoro. Guida Operativa per la Scuola, Roma.

Massagli, E., Tiraboschi, M. (2015). Un apprendistato che (ancora) non decolla. A proposito del monitoraggio ISFOL e della ennesima riforma senza progetto