Fondazione Bracco e Percorsi di secondo welfare hanno scelto di promuovere un ciclo di approfondimenti sulle Fondazioni di impresa dialogando con studiosi ed esperti di varie discipline. Nel secondo di questi confronti (dopo l’intervista con Stefano Zamagni) abbiamo incontrato Enrico Giovannini. Già Presidente di Istat – dal 2009 al 2013 – e Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da aprile 2013 a febbraio 2014, Giovannini è co-fondatore e attuale Portavoce dell’Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS). È stata l’occasione per chiedergli del possibile ruolo che gli enti filantropici, e in particolare le fondazioni di impresa, possono assumere verso i temi dello Sviluppo Sostenibile nel contesto socio-economico segnato dagli effetti della pandemia di Covid-19.
Perché gli obiettivi dello Sviluppo Sostenibile riguardano anche gli enti filantropici, e tra questi le fondazioni d’impresa?
L’Agenda 2030 è universale, non solo perché è stata firmata da tutti i Paesi del mondo nel 2015, ma perché riguarda le componenti di tutti i Paesi: si rivolge ai governi, alle imprese, ai cittadini, alla società civile. Se questo è il presupposto, è chiaro che l’Agenda 2030 riguarda anche il mondo della filantropia. Per questo Assifero ha aderito all’ASviS, così come partecipano all’Alleanza varie fondazioni di impresa che, in alcuni casi, si occupano di Corporate Social Responsability (CSR). Sottolineo che le imprese che hanno capito a fondo che cos’è la sostenibilità hanno cambiato prospettiva e non distinguono più ciò che fa l’impresa e ciò che fa la fondazione perché la finalità della costruzione di un mondo più sostenibile è la stessa per entrambe le realtà anche se perseguita con strumenti diversi.
Può spiegarci meglio cosa può significare per le fondazioni adottare la prospettiva dello Sviluppo Sostenibile?
Sempre più fondazioni hanno adottato l’Agenda 2030 e i 17 obiettivi di Sviluppo Sostenibile come modello per orientare le proprie attività. Tuttavia, il rischio che si corre, come accade per le imprese, è quello di selezionare e perseguire solo alcuni di questi obiettivi, sottovalutando l’importanza dell’impianto complessivo dell’Agenda 2030, caratterizzato dall’interrelazione tra gli stessi. Certamente si tratta di un quadro molto complesso, ma lo sforzo richiesto è proprio quello di non considerare le azioni come compartimenti stagni: alcune imprese, infatti, si concentrano solo sulla riduzione delle emissioni e altre solo sulla riduzione della disoccupazione. In realtà, limitandosi al raggiungimento di alcuni obiettivi si rischia di perdere la prospettiva sistemica e si dimentica che l’impresa può fare molto di più sui diversi piani: economico, sociale e ambientale.
Cosa potrebbero fare le imprese e le fondazioni, oltre al perseguimento di alcuni obiettivi, in tema di Sviluppo Sostenibile?
Per esempio, fare informazione a proposito dell’Agenda 2030. Se si vuole veramente portare il mondo su un sentiero di Sviluppo Sostenibile e non limitarsi ad un’operazione di facciata, o greenwashing, informare i clienti relativamente ai temi e agli obiettivi dell’Agenda 2030 può diventare un obiettivo molto importante. Ciò vale anche per le fondazioni che però corrono due rischi: in primo luogo, storicamente molte sono legate a imprese familiari e quindi risentono di un approccio un po’ paternalistico, di per sé non sbagliato, ma forse insufficiente per la trasformazione a cui siamo chiamati; in secondo luogo, un’ulteriore debolezza riguarda il fatto che spesso le fondazioni si concentrano su singoli progetti piuttosto che su azioni trasformative. Per dirla con un adagio “non si tratta di dare del pesce a chi ha fame, ma di insegnare loro a pescare”. Quindi il mondo delle fondazioni è sfidato, come lo sono altri soggetti, ad adottare una prospettiva trasformativa ed è su questo che, come ASviS insieme ad altri, stiamo lavorando.
Mi può spiegare meglio la prospettiva che deriva dall’Agenda 2030?
Certamente, ma in primo luogo bisogna comprendere profondamente che cos’è lo Sviluppo Sostenibile. Se si chiede alle persone che cosa pensano quando si parla di Sviluppo Sostenibile, molti rispondono riferendosi ai temi ambientali. Molte persone rimangono infatti condizionate da un’idea vecchia dato che per molto tempo si è parlato di ambiente giustapponendo questo tema ad altri ambiti come l’economia, la società, il lavoro, ecc. Lo Sviluppo Sostenibile riguarda invece la giustizia e, in particolare, la giustizia tra le generazioni. Il Rapporto Bruntlandt, che ha coniato a livello internazionale questo principio nel 1987, definiva lo Sviluppo Sostenibile come quella prospettiva di sviluppo che consente alla generazione attuale di soddisfare i propri bisogni senza pregiudicare il fatto che le generazioni future facciano altrettanto. Da questa definizione si evince come parlare di Sviluppo Sostenibile significhi parlare in primo luogo di giustizia tra le generazioni. E cosa lega la generazione attuale con quelle future? Il capitale economico, il capitale sociale, il capitale naturale, il capitale umano.
In questi tempi così duramente segnati dall’emergenza sanitaria, sociale ed economica, non si corre il rischio di una maggiore frammentazione degli interventi, e questo rischio non potrebbe riguardare gli enti filantropici oltre che i governi?
Certo, c’è un forte rischio della sindrome della matrigna di Cenerentola: i governi sono assillati da chi dice di essere “il più colpito del reame”. È sicuramente una forte criticità il fatto che qualsiasi politica venga promossa c’è qualche categoria nella società che si ritiene esclusa. La debolezza della politica di fronte alle molte pressioni può comportare uno spreco di risorse pubbliche, perché i bisogni sono tantissimi ed è difficile fare una selezione. Ma una visione strategica richiede che ci si interroghi su quali siano le priorità e su come investire le risorse. La domanda che dovrebbe guidare i governi, ma anche gli enti filantropici, dovrebbe essere: cosa voglio cambiare? Quali azioni trasformative voglio mettere in atto? Adottare questo cambio di prospettiva significa sfidare una certa pigrizia che spinge a continuare a fare come sempre. Questa emergenza invece ci spinge a pensare che non si può più fare come prima. Perché nulla tornerà come prima, sia per la violenza della crisi sociale ed economica in atto sia per la non linearità dei cambiamenti che stiamo vivendo. La non linearità è un concetto a cui non siamo abituati e per questo è importante cambiare prospettiva, thinking the unthinkable, come recita un rapporto di ricerca, poi divenuto un libro, che suggerisco a tutti di leggere e che parla della difficoltà di cambiare delle organizzazioni.
Quali sono alcuni consigli e raccomandazioni che possiamo lanciare al mondo delle fondazioni, nell’ottica degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile?
Come dicevo, quello che si può raccomandare alle fondazioni è di capire su quale capitale si vuole investire: durante l’emergenza sanitaria ci si è concentrati sulla salute e sulla sanità, in altri termini sul capitale umano; in questa fase in cui l’epidemia sembra sotto controllo si può riflettere sugli altri capitali e su quanto e come siano stati danneggiati. In tema di capitale economico si sta tentando di mettere in campo un intervento dell’attore pubblico; vanno considerate certamente anche le conseguenze della crisi sul capitale sociale perché si rischia una guerra fra poveri e la disgregazione delle relazioni.
Credo però che a subire i contraccolpi più forti sia stato il capitale umano, sia per quanto riguarda gli adulti (penso ai tanti disoccupati e sottoccupati), sia soprattutto per quanto riguarda i giovani e i bambini che rischiano di subire delle conseguenze sul lungo periodo con un effetto cumulativo che riguarda diverse dimensioni della loro esistenza. A causa dell’interruzione della scuola, i più piccoli hanno subito un colpo durissimo, specialmente i più svantaggiati, per quanto riguarda la formazione delle loro capacità. Si è verificato, come denunciano diversi insegnanti, un aumento della dispersione scolastica e, a tal proposito, ricordo che se un bambino non impara nei primi anni di vita quello che dovrebbe imparare, ciò avrà effetti sul lungo periodo su molti aspetti della sua vita, dalla capacità di trovare un lavoro agli effetti sul metabolismo, quindi alla salute, ecc. Per questa ragione credo che oggi una delle priorità, anche per le fondazioni, debba essere l’attenzione alle nuove generazioni.
Quindi un suggerimento potrebbe essere quello di dedicare un’attenzione particolare alle nuove generazioni? In che modo si potrebbe creare una visione strategica condivisa tra le fondazioni e con gli altri attori?
Si tratta di intervenire, in modo prioritario, sui danni che la crisi arreca alle nuove generazioni perché questi avranno conseguenze negli anni, con un effetto cumulativo. Credo anche che le fondazioni risentano di un difetto di fondo che riguarda il mondo delle imprese e il modo in cui è organizzata la società. Ad esempio, a mio avviso non era l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, su cui poi si è intervenuti, a causare il nanismo delle imprese, ma questo è conseguenza del modo in cui è organizzata la società; e a questo proposito ritengo che l’ottica dell’impresa familiare, e quindi della fondazione familiare, vada superata. Le fondazioni dovrebbero sempre di più ragionare insieme tra di loro e con gli altri attori per individuare ambiti in cui l’attore pubblico non arriva o non arriva a sufficienza, come per esempio quelli che riguardano le nuove generazioni o le aeree interne. Penso inoltre come un elemento positivo al fatto che sempre più enti filantropici abbiano iniziato a concentrarsi sul finanziamento a sostegno delle organizzazioni anziché del singolo progetto. Queste sono solo alcune indicazioni per pensare in un’ottica trasformativa, per ragionare cioè sulla base dei cambiamenti che si vogliono realizzare.
Questo contributo è parte del ciclo di approfondimenti sulle Fondazioni di impresa nell’era del Covid-19, promosso da Fondazione Bracco insieme a Percorsi di secondo welfare.