Nei giorni scorsi l’Advisory Board italiano della Social Impact Investment Task Force ha concluso e quindi presentato un rapporto relativo a ciò per cui era stato costituito. La presentazione è avvenuta contemporaneamente a quella dell’altro rapporto, quello – diciamo così – generale, intitolato “Impact investment: the invisible heart of markets”. La scelta dell’Advisory Board italiano è stata quella di insistere tanto sul lato della domanda che su quello dell’offerta di capitali, sulla base della consapevolezza «della centralità delle dinamiche di coevoluzione tra domanda e offerta nel determinare le caratteristiche dell’intero ecosistema della finanza sociale».
Considerato che lo sforzo sotteso al rapporto della sezione italiana della task force è dunque quello di offrire una rappresentazione dell’intero mondo della finanza sociale e di una prima stima prudenziale dello sviluppo del relativo mercato, lo strumento dei social impact bonds costituisce solamente uno dei molteplici aspetti affrontati. Peraltro, nelle pagine del documento si sottolinea come «al momento, nel contesto italiano questi strumenti sono del tutto assenti».
Ciò detto, è utile segnalare come il rapporto si concluda con una serie di raccomandazioni che – alcune più facilmente realizzabili, altre bisognose di più tempo – appaiono particolarmente significative e senz’altro utili allo sviluppo di un “nuovo mercato”, quello dell’impact investing. Soprattutto il rapporto ha il merito di individuare chiaramente quali prospettive di approfondimento occorrerà perseguire per dar seguito al dibattito intrapreso e per vedere la realizzazione di quanto l’impact investing sembra promettere in termini di sviluppo economico del sistema paese.
Finanza sociale: mettiamo un po’ di ordine
Con la presentazione del rapporto, infatti, alcuni fenomeni ivi sottolineati e puntualizzati sembrano introdurre, su un piano concettuale, un pò di ordine entro un dibattito che, sulla scia di un entusiasmo decisamente cresciuto con l’avvio delle prime sperimentazioni, era stato sino ad ora caratterizzato da una considerevole e – per certi versi – comprensibile confusione. Il valore principale del documento elaborato dalla sezione italiana della task force voluta da David Cameron nel 2013, durante la presidenza UK del G8, consiste nella sua puntuale giustificazione del tema relativo alla finanza sociale e – per quanto qui interessa – dei social impact bonds.
Con una approssimazione forse eccessiva, ma utile per far comprendere rapidamente l’idea di fondo, si potrebbe dire che il rapporto mostra con una discreta precisione l’esistenza e le principali caratteristiche di un potenziale mercato, per il vero insistendo soprattutto sul versante della domanda di strumenti finanziari utili alla crescita del c.d. Terzo Settore. Sul lato dell’offerta, comunque presa in considerazione dai lavori della sezione italiana della task force, si può in generale sottolineare che tale parte del rapporto – anche per ragioni dettate dalle finalità dello stesso – si attesta a ricostruire e illustrare l’esistenza e le forme della disponibilità mostrata da alcuni capitali ad impegnarsi entro operazioni che possono rientrare nell’ambito dell’impact investing. L’offerta di capitali attuale e quella stimata si mostrano come segnali decisamente positivi per il potenziale sviluppo del mercato dell’impact investing, che si caratterizza per un significativo tasso di crescita, sulla base dei dati riportati nel rapporto.
Un’opportunità per il settore pubblico
Si tratta senz’altro di un passaggio decisivo affinchè il tema – così come auspicato dai principali responsabili del rapporto – possa entrare nella agenda del Governo. Tra le numerose raccomandazioni formulate, si possono segnalare in particolare quelle che riguardano anche i social impact bonds, che prevalentemente insistono sulla introduzione di benefici fiscali e di regimi di tassazione incentivanti tale tipologia di investimenti, sulla redazione e l’adozione di misure normative che consentano la possibilità di utilizzare operazioni di sottoscrizione di nuovi strumenti finanziari, del tipo qui in discorso, oltre che sulla necessità di rivedere ed aggiornare la disciplina relativa alla contrattualistica pubblica, in linea con le più recenti modifiche avvenute in sede europea e finalizzate al riconoscimento delle specificità dell’imprenditoria sociale.
Sul punto si ritiene comunque di aggiungere una considerazione ulteriore rispetto a quelle offerte dal rapporto: ogni social impact bonds gioca sulla possibilità di creare dei savings per l’istituzione pubblica e su tale base generare delle somme che vadano, tutte o in parte, a remunerare l’investitore; ora, alla luce dei principi e delle regole che danno forma alla contabilità pubblica italiana, e in particolare a quella degli enti locali, bisognerebbe immaginare quali possibilità ci siano di “utilizzare” i risparmi ottenuti, sotto la vigenza di vincoli particolari (ad esempio il c.d. patto di stabilità), che nel loro complesso non paiono assolutamente incentivare la creazione di risparmi. Ben venga quindi la “riforma” del Terzo Settore, con l’introduzione di novelle legislative in tema di impresa sociale, ma si tenga in considerazione che un potenziale sviluppo di tale realtà sociale ed economica si realizzerà pienamente solo se il suo main partner si farà trovare pronto e – soprattutto – dotato di adeguati margini di manovra.
Lo schema aperto offerto dai social impact bond: alcune puntualizzazioni
Tornando all’oggetto centrale di queste riflessioni, è urgente sottolineare come il social impact bond, più che costituire uno strumento completo e definito da applicarsi ad una serie di servizi sociali, assomiglia piuttosto ad uno schema, un modello generale, flessibile e aperto, nel senso che – come ogni struttura – richiede siano individuati specifici contenuti e – ancora più importante – siano attentamente valutate le capacità di carico che ogni singolo pillar possiede. In altri termini, sembra importante smarcarsi dalla linea sino ad ora seguita, peraltro sulla base della comprensibile necessità di giustificare l’emergere di una significativa novità nel panorama dei c.d. social services. È il momento di avviarsi pertanto lungo la strada della riflessione puntuale e forse un pò meno evocativa di visioni di lungo termine o di rivoluzioni e cambiamenti di paradigma, per affrontare piuttosto i social impact bonds per ciò che sono, ossia strumenti finanziari.
In quanto strumenti finanziari, lo scopo dei social impact bonds è quello di funzionare quali leverages per una tipologia di impresa che opera in specifici ambiti di business, riconducibili, con una espressione capace di qualificarli per la loro finalità comune, al “settore” social. Tali strumenti, per assolvere alla loro funzione di leve finanziarie, tanto o poco, sono caratterizzati dalla dimensione del rischio. Ciò che appare decisivo da affrontare è dunque uno studio puntuale delle tipologie di rischio che un social impact bond pone, in relazione ovviamente a ciascuna categoria di soggetti coinvolti. Dovendo indicare una direzione di ricerca si può quindi segnalare l’opportunità di individuare i rischi cui ciascun soggetto si espone e la loro classificazione entro categorie concettuali adeguate e generalmente in uso tra gli addetti ai lavori.
I rischi insiti nello strumento
In estrema sintesi vale forse qui la pena illustrare alcune delle principali categorie di rischi insiti nella struttura di un social impact bond, consapevoli del fatto che non si tratta di una precisa e completa disamina, quanto piuttosto di uno spunto di riflessione per successivi approfondimenti.
La prima e generica categoria di rischi riguarda quelli legati all’esecuzione delle prestazioni previste nel contratto sottostante il social impact bond. Il rischio di esecuzione comprende quindi le sfide costituite dal raggiungimento di determinate performances che sono caratterizzanti ed essenziali per la struttura di un social impact bond, così come nel più classico project financing. Si pensi al rischio rappresentato dal fornitore del servizio sociale oggetto dell’accordo: i fornitori di servizi sociali competenti per “scalare” un intervento sociale possono rivelarsi deboli o non in grado di scalare l’intervento come previsto. Per questa tipologia di rischi si può altresì fare riferimento al rischio che il progetto di social impact bond sia mal eseguito (anche qualora fosse ben concepito): questo rischio potrebbe danneggiare seriamente gli stessi beneficiari che il social impact bond è destinato a servire. Ancora si può pensare al rischio che i fornitori dei servizi sociali intraprendano azioni inappropriate al solo scopo di mostrare che gli obiettivi di performance stabiliti sono stati raggiunti.
Una seconda categoria è quella dei rischi finanziari. In uno schema basato sui modelli di social impact bond sino ad ora utilizzati, i rischi finanziari sono significativamente posti sulle spalle degli investitori. Questo ovviamente limita sensibilmente il pool dei potenziali investitori. I rischi finanziari sembrano poi essere esacerbati dalle specifiche caratteristiche del “titolo” in discorso: esso è infatti un investimento relativamente di lungo termine e attualmente illiquido (non può essere convertito in soldi contanti rapidamente o ai prezzi di mercato generalmente praticati). Un ulteriore elemento relativo ai rischi finanziari entro lo schema di un social impact bond riguarda i c.d. transaction costs, che potrebbero superare il ritorno finanziario (oltre ai costi per l’avvio del progetto, si devono considerare anche i costi relativi alla vita del social impact bond, ossia quelli di gestione per l’intermediario e di misurazione delle performances per il valutatore indipendente).
I rischi politici – quale terza categoria – riguardano sia la capacità che la volontà dell’istituzione pubblica coinvolta di ottemperare alle obbligazioni assunte attraverso la sottoscrizione del contratto alla base del social impact bond. Questa tipologia di rischio politico può manifestarsi in diversi modi, tra i quali (i) interferire con gli strumenti di misurazione delle performances, (ii) forzare rinegoziazioni dei termini contrattuali del social impact bond, (iii) ritardare (o ostacolare diversamente) la concessione di appropriate autorizzazioni per l’esercizio di determinate attività o, addirittura (iv) rifiutare il pagamento delle proprie obbligazioni. Elementi che possono rendere ancor più significativi tale tipologia di rischi dipendono (a) dalla relativa lunga durata del social impact bond (cambiamento di funzionari pubblici e governativi, cambiamenti o sconvolgimenti politici, come d’altra parte, cambiamenti avversi delle condizioni economiche generali), (b) qualora esistente, dalla limitata esperienza da parte delle istituzioni pubbliche nell’impegnarsi in forme contrattuali di tipo payfor-success, (c) dalla possibilità che alcuni social impact bonds siano prezzati in modo inadeguato per i rischi finanziari che impongono rispetto alla remunerazione che sono in grado di generare, esponendo i social impact bonds e le relative istituzioni pubbliche che li hanno promossi, a critiche tali da indurre le stesse istituzioni a rinegoziare i termini dell’accordo sottostante i social impact bonds. Anche radicati interessi nelle istituzioni pubbliche possono rappresentare un rischio per il funzionamento dello schema tipico del social impact bond: in tale struttura sono coinvolti o possono essere coinvolti numerosi stakeholders, tra i quali una serie di agenzie governative, ministeri, dipartimenti e uffici. Alcuni di questi attori potrebbero resistere al coordinamento e alla delega di autorità decisionale che i social impact bonds richiedono. Questa resistenza può essere palese o, peggio, non dichiarata ed esplicita. Può essere intenzionale o può derivare da debolezze della governance o dalla scarsa coordinazione tra gli attori pubblici coinvolti.
I rischi di intermediazione costituiscono una quarta categoria di rischi che si pongono prevalentemente per l’istituzione pubblica e per gli investitori. L’intermediario del social impact bond può agire in modo proattivo, un pò come i managers di fondi di private equity, ovvero può assumere un attegiamento più “passivo”, come avviene nel caso dei fiduciari o degli agenti finanziari. Il rischio di intermediazione può quindi assumere diverse forme. In primo luogo, gli intermediari potrebbero non essere all’altezza del compito di coordinare e gestire la complessa rete di attori e interessi inerenti all’accordo per tutta la durata dell’investimento. Data la novità delle strutture di social impact bonds, si tratta di un pericolo attuale, infatti non vi è alcun track record nella intermediazione di social impact bonds. Verosimilmente, molti di coloro che possono offrire servizi di intermediazione per social impact bonds, pur essendo in grado di dimostrare comprovate capacità finanziarie e di gestione, stanno imparando direttamente sul campo. Un secondo rischio di intermediazione è quello che riguarda un intermediario di social impact bonds che fallisse per ragioni non direttamente connesse al ruolo e alle responsabilità da questi assunte all’interno dello schema di social impact bond. Si tratta di un rischio che ha più probabilità di verificarsi quando lo schema si realizzi con intermediari che hanno anche altre responsabilità, finanziarie e operative, in aggiunta a quelle derivanti dalle loro attività nel social impact bond.
Tutti gli attori coinvolti in una struttura come quella dei social impact bonds, sono poi vulnerabili alla quinta categoria di rischi che si può immaginare, ossia quella dei rischi reputazionali. Si pensi ovviamente al caso in cui la transazione costruita attraverso la realizzazione del social impact bond non riuscisse a raggiungere gli obiettivi prefissati (in una prospettiva di danno reputazionale, i fornitori dei servizi sociali sono forse in prima linea, in quanto il loro mancato raggiungimento degli obiettivi stabiliti potrebbe avere implicazioni di vasta portata, anche al di là della contingente esperienza del social impact bond nel quale si sono coinvolti). Peraltro, uno dei rischi reputazionali che dovrebbe poi destare maggiori preoccupazioni è quello relativo alla pubblicità che potrebbero avere le controversie nascenti tra le parti del contratto del social impact bond. Tali controversie potrebbero influire ben al di là di una determinata operazione e finire per indebolire la volontà politica dei governi ospitanti di impegnarsi in obbligazioni, attuali o future, derivanti dai social impact bonds e, in ultima analisi, ridurre considerevolmente l’interesse di potenziali investitori in questo genere di operazioni.
Alcune proposte per limitare i rischi
Laddove emergono dei rischi, perciò, occorre esprimersi sulla loro adeguatezza ed eventualmente, individuare strumenti opportuni alla loro mitigazione ovvero ed eventualmente al loro trasferimento in capo a soggetti più opportunamente attrezzati a farsene carico. Si tratterebbe di strumenti di garanzia, in parte di natura assicurativa, volti a ridurre e gestire alcuni dei rischi sopra richiamati (in particolare quelli finanziari e politici) e insiti nella natura del social impact bond. In tal senso – e solo con riferimento alla categoria dei rischi politici – basti richiamare la possibilità di integrare nello schema contrattuale di un social impact bond meccanismi quali quelli del non-honoring of sovereign financial obligations o strumenti del tipo delle currency inconvertibility coverages e delle political violence coverage. Ancora, si dovrà insistere nella individuazione degli strumenti e dei meccanismi finanziari (dal mondo della finanza tradizionale) che possono – o con talune risistemazioni, potrebbero – affiancare o essere integrati negli schemi dei social impact bonds, al fine di rafforzare il credito (ad esempio si pensi al meccanismo di performance–based debt buy–down o allo surety bond) e così mitigare i rischi di tipo finanziario.
Per quanto poi riguarda i rischi di intermediazione appare evidente che – oltre ad ulteriori accorgimenti relativi magari alla governance del struttura – sarà necessario immaginare uno special purpose vehicle con un proprio management che assolva alle funzioni di intermediazione del social impact bond. Anche i rischi di esecuzione dovranno essere fronteggiati lavorando – tra le altre possibili strategie di gestione dei rischi – sulla selezione dei c.d. social service providers, individuando parametri e criteri attraverso cui svolgere adeguate due diligences ed eventualmente promuovendo strumenti adeguati per l’accountability di tali soggetti.
Infine, sarà decisivo pensare alle modalità attraverso le quali è possibile costituire un effettivo e complementare mercato secondario dei social impact bonds, ossia individuare e costruire le condizioni e i termini in base ai quali ciascun investitore potrà eventualmente scambiare il proprio “titolo”, magari con tassi di interesse diversificati in base al momento di “entrata” e “uscita” dell’investitore, sempre con la preoccupazione di mitigare – anche in questo modo – alcune delle spigolosità che, da un punto di vista della sua appetibilità, caratterizzano il social impact bond (una su tutte la durata).
In altri termini, e con solo riferimento allo schema di cui qui si discute, ossia quello dei social impact bonds, studiata e compresa la domanda di strumenti di leveraging che emerge sempre più insistente da parte del Terzo Settore tanto quanto da parte dello Stato e verificata l’esistenza di una offerta di capitali, per quanto concerne i social impact bonds, occorre costruire in tutta risposta, un prodotto tecnicamente valido ed equilibrato intorno al quale, domanda e offerta, possano incontrarsi. La direzione di ricerca prima e di sviluppo/implementazione poi, è quindi quella emersa anche da taluni intervenuti alla presentazione del raporto da cui abbiamo preso le mosse per queste sommarie riflessioni. La visione di un futuro scenario che una certa domanda è in grado di suscitare, insieme ad una ricognizione circa l’esistenza di una effettiva offerta di capitali che a tale domanda potrebbero rispondere (e in parte già lo fanno), per quanto accurate e documentate, non sono ancora del tutto sufficienti per poter parlare di un nuovo mercato (per i social impact bonds). Sono tuttavia sufficienti – e senza dubbio alcuno incoraggianti – per iniziare ad approfondire il punto di incontro di domanda e offerta, ossia iniziare a ragionare sulle specifiche tecniche del prodotto, anche alla luce dei primissimi feedbacks che le sperimentazioni avviate di social impact bonds ci offrono.
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