Negli ultimi mesi il dibattito sull’euro-crisi è stato dominato da due eccessi: tecnicismo e moralismo. Da un lato, balletti quotidiani di cifre e di sigle sconosciute e incomprensibili ai più. Dall’altro lato, giudizi su buoni e cattivi, santi e peccatori, creditori e debitori. E’ mancato uno spazio di discussione intermedio, ancorato ai fatti ma ispirato a principi, e soprattutto capace di guardare lontano. Qualcuno già parla di un nuovo “tradimento dei clerici”, resuscitando la formula usata da Julien Benda negli anni Venti per denunciare la viltà e la partigianeria degli intellettuali.
Pur non del tutto priva di fondamento, l’accusa è esagerata. Alcune grandi voci della cultura europea si fanno periodicamente sentire. Ieri è toccato a Jürgen Habermas. In un lungo intervento sulla Süddeutsche Zeitung, il decano dei filosofi continentali ha preso una posizione molto critica nei confronti della élite politica tedesca. E’ scandaloso, dice Habermas, che la vicenda greca sia degenerata in uno “scontro fra popoli”, e che il possibile fallimento di uno stato venga trattato alla stregua di una insolvenza privata. E lo scandalo nello scandalo è l’ostinazione con cui il governo tedesco difende regole e assetti istituzionali che hanno amplificato a dismisura gli effetti della crisi. Le elezioni greche hanno introdotto un po’ di sabbia negli ingranaggi dell’Eurozona. Un fatto salutare, ma Tsipras lo sta in buona parte sprecando, incapace com’è di europeizzare il confronto e di opponendo al paradigma dell’austerità una nuova visione dell’Europa.
E’ un peccato, perché i tempi sarebbero invece maturi per un cambiamento. Ne è convinto Amartya Sen, un’altra illustre voce che ha recentemente parlato sul New Statesman (il 4 giugno scorso). Anche il noto filosofo-economista se la prende con i leader politici, assolvendo (in maniera a mio avviso troppo disinvolta) le truppe di economisti-consiglieri che hanno orientato le scelte delle varie istituzioni europee. Sen fa però un’osservazione di cui la UE dovrebbe far tesoro. Riforme strutturali e austerità “indiscriminata” non debbono accompagnarsi per forza. Tenerle assieme è stato un errore madornale: è come dare a un paziente con la febbre un antibiotico (le riforme strutturali, necessarie per la crescita) mescolato a veleno per i topi (avanzi primari di tre o quattro punti di PIL, come chiesto alla Grecia: un viatico per il soffocamento).
Sia Habermas sia Sen auspicano un risveglio della Politica con la p maiuscola. Un auspicio condivisibile, ma a mio avviso insufficiente. Se è vero che servono nuove visioni, è un po’ ingenuo pensare che possa essere l’attuale classe politica europea ad elaborarle. Con ogni probabilità la crisi greca si risolverà con un compromesso dell’ultim’ora, scarsamente coerente e potenzialmente instabile. Ciò che serve è uno scatto di ambizione progettuale, un richiamo forte alla responsabilità storica che la leadership europea deve oggi esercitare. Se davvero siamo allo scontro fra popoli, la politica non può limitarsi a mediare, deve “riconciliare”: un processo delicato, al quale gli intellettuali hanno il dovere di contribuire in prima persona.
Parlando ieri alla Statale di Milano, la filosofa franco-bulgara Julia Kristeva ha proposto l’istituzione di una Accademia culturale europea, un luogo capace di generare idee-valore che consentano alle culture politiche nazionali di uscire dall’attuale “depressione”. Occorre ben altro, dirà qualcuno. Ma la formazione di nuove comunità politiche è un processo molto lento e in parte imprevedibile. Anche i piccoli semi possono produrre grandi risultati.
Questo editoriale è comparso anche su Il Corriere della Sera del 24 giugno 2015