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Come vi raccontiamo da tempo, il welfare aziendale è sempre più strategico per la crescita delle imprese. Le misure e prestazioni sociali sono ormai percepite come prioritarie da lavoratori e lavoratrici, in particolare quelle che permettono di migliorare l’equilibrio tra vita lavorativa, familiare e personale. Ma un migliore work-life balance porta benefici non solo ai dipendenti ma anche  alle organizzazioni, che possono godere di un clima aziendale positivo, di maggiori possibilità per attrarre e trattenere talenti e di una leva per migliorare la produttività.

A dimostrazione di ciò c’è il fatto che da alcuni anni tante organizzazioni stanno cambiando la loro prospettiva e il proprio approccio verso le risorse umane. Alcuni osservatori per descrivere questa tendenza hanno iniziato a parlare di “caring company” o di una rinnovata “centralità della persone” (o people centricity) o, ancora, di “nuovo umanesimo aziendale”. Al di là delle definizioni, quello che risulta chiaro è che alla base di queste nuove visioni c’è la volontà di valorizzare un approccio organizzativo maggiormente attento ai bisogni di lavoratori e lavoratrici e al miglioramento del loro benessere.

Questo è evidenziato anche da alcune ricerche, che mettono in luce le ragioni di queste scelte. Ma anche l’importanza di strumenti adeguati per sostenere lo sviluppo di approcci che pongano al centro i bisogni delle persone che lavorano nelle organizzazioni.

Una nuova filosofia organizzativa

Secondo una indagine effettuata tra novembre e dicembre 2022 da Tundr, operatore di welfare aziendale di cui vi abbiamo recentemente parlato, che ha coinvolto 1.500 imprese italiane, prevedere misure e prestazioni di welfare fa compiere al lavoro un vero salto di qualità, migliorando efficienza (+47%) e produttività (+38%). La ricaduta che questi benefit possono generare è però limitata da un lato dalla scarsa conoscenza delle esigenze dei collaboratori, che può portare alla realizzazione di interventi “distanti dai bisogni reali dei dipendenti” (73%) e, dall’altro, dalla complessità di utilizzo di alcune tipologie di prestazioni (67%).

Anche CIR Food, società cooperativa italiana che opera nel settore della ristorazione collettiva e commerciale e nel settore del welfare aziendale, ha recentemente realizzato una ricerca – in collaborazione con Nomisma – che ha interessato 1.000 lavoratori e 150 manager HR di altrettante aziende con sedi nel nostro Paese. Secondo i risultati di questa indagine, la ragione che spinge le imprese ad attivare un piano di welfare riguarda la possibilità di migliorare il benessere dei dipendenti (66%) e il clima aziendale (53%) (figura 1).

Figura 1. Le aziende intervistate che fanno welfare e le ragioni per cui lo fanno (Fonte: CIR Food – Nomisma)

Inoltre, per 1 HR manager su 2, rispetto al periodo prepandemico, oggi è aumentato notevolmente l’interesse delle persone verso i servizi di welfare aziendale. Anche per questo, il 64% delle figure aziendali che si occupano del welfare vorrebbe avvalersi di una consulenza da parte di esperti e ricercatori, allo scopo di costruire interventi coerenti con i bisogni sia dell’azienda sia dei lavoratori e lavoratrici.

Il punto di vista di lavoratori e lavoratrici

Allo scopo di approfondire anche il punto di vista dei beneficiari, l’indagine di Nomisma ha coinvolto anche lavoratori e lavoratrici. Secondo l’80% del campione, la presenza di un piano di servizi e benefit di welfare è “fondamentale” o “importante” per la scelta del posto di lavoro. Tra le prestazioni più apprezzate ci sono “salute e prevenzione” (62%) e misure legate alla “conciliazione vita-lavoro” (59%).

C’è però ancora molta strada da fare per migliorare l’impatto che il welfare aziendale può avere sulle persone. Per il 70% dei dipendenti intervistati sarebbe infatti necessario potenziare i servizi offerti, in modo tale da rispondere maggiormente ai bisogni; inoltre, per il 67% degli intervistati dovrebbero essere previste più tipologie di beni e servizi.

Soprattutto a causa di queste difficoltà 1 lavoratore su 10 non utilizza il suo piano di welfare. E la ragione principale è che non riesce a trovare nulla che risponda alle sue esigenze (figura 2).

Figura 2. Gli ambiti di miglioramento del piano di welfare e gli ostacoli al suo utilizzo secondo i lavoratori (Fonte: CIR Food – Nomisma)

Evidenze simili emergono anche dal 6° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, dal titolo “Il valore delle nuove forme del lavoro nelle aziende”, presentato lo scorso 1 marzo a Roma. Stando alle rilevazioni fatte dal Censis – che hanno coinvolto un campione rappresentativo di 1.000 adulti residenti in Italia – i dispositivi di welfare aziendale sono un pò più conosciuti rispetto al passato: il 65% circa degli occupati afferma infatti di sapere di cosa si tratta (contro il 61% dello scorso anno).

Rispetto al valore che il welfare può avere, alla domanda “Quale tipologia di servizio o prestazioni vorresti che la tua azienda ti offrisse” la maggior parte dei lavoratori (il 79%) ha risposto “supporto personalizzato in base alle mie esigenze”. Emerge dunque, anche in questo caso, la necessità di concentrare gli investimenti aziendali verso interventi il più possibile tarati sulla base dei bisogni specifici delle persone e delle loro famiglie.

Mettere al centro i (veri) bisogni della persona

La conoscenza dei bisogni – sociali e non – dei lavoratori e delle lavoratrici è quindi cruciale per la costruzione di un piano di welfare che sia efficace e generi un ritorno per l’organizzazione che vi investe. A questo scopo, l’analisi dei bisogni dovrebbe sempre rappresentare il primo step del percorso di creazione di un piano. E dovrebbe essere ripetuta nel tempo, perché – come abbiamo visto con la pandemia – le necessità e le esigenze delle persone sono in continuo mutamento.

Una nozione che sembra scontata ma che spesso non lo è, soprattutto per quel che riguarda la modalità con cui vengono raccolti i dati sulla popolazione aziendale. Se infatti le organizzazioni appaiono sempre più consapevoli della necessità di avere contezza di dimensione e struttura della propria popolazione aziendale, questa non necessariamente si traduce in un’analisi approfondita, che tenga conto non soltanto degli aspetti quantitativi, ma anche di quelli che sono, appunto, i veri bisogni di chi è interpellato.

E anche nei casi in cui si usano strumenti per conoscere i bisogni delle persone in azienda, le rilevazioni sono fatte utilizzando questionari standardizzati, spesso inadeguati, oppure attraverso interviste o focus group che – pur offrendo una grande mole di informazioni – richiedono molto tempo e risorse. Inoltre, spesso l’analisi dei bisogni viene confusa con l’analisi di clima, che è un’attività molto diversa, sia per scopi che per metodologia, in quanto non è incentrata sulle necessità (anche sociale) dei collaboratori ma piuttosto sulla percezione di questi ultimi dell’ambiente di lavoro.

In molti casi poi le organizzazioni affidano l’analisi dei bisogni a società esterne. Avendone compresa la rilevanza, molti provider di welfare aziendale e società di consulenza offrono infatti questo tipo di servizio. Il loro approccio difficilmente è però “neutro”: capita infatti che i loro strumenti di indagine siano strutturati in modo da far risaltare un determinato bisogno per cui si ha già pronta una soluzione. Ad esempio un provider che ha come core business la vendita di buoni, cercherà di valorizzare quei servizi di welfare veicolabili attraverso voucher; oppure una società che si occupa di formazione finirà per concentrarsi soprattutto sulle necessità riguardanti questa specifica area di bisogno.

Così facendo, però, i veri bisogni di chi beneficia del welfare non vengono intercettati o sono intercettati solo in parte, creando quel gap – citato nella prima parte dell’articolo – tra domanda di servizi e risposte messo in campo dalle organizzazioni tramite i piani di welfare.

Un nuovo strumento per aiutare le organizzazioni

Con lo scopo di supportare le organizzazioni per superare questo problema di conoscenza, la società benefit Walà, con il supporto scientifico del Laboratorio Percorsi di secondo welfare, ha investito nella realizzazione di WIN – What I Need.

Come abbiamo raccontato qui, WIN è uno strumento digitale che permette di far emergere in maniera precisa e dettagliata i bisogni dei loro collaboratori. Si tratta di un questionario “adattivo”, cioè in grado di cambiare in base ai bisogni che una persona esprime nel corso dell’analisi e, di conseguenza, di approfondire quelle aree di necessità in cui il bisogno è indicato come più elevato.

Essendo basato sulle opportunità definite dalla normativa sul welfare aziendale, WIN è strutturato in sei aree di bisogno: carichi di cura familiari, vulnerabilità economico-finanziaria, salute e benessere psicologico, necessità legate alla formazione, mobilità e tempo libero. Tutto ciò attraverso domande mirate, che cambiano a seconda delle risposte che vengono date e che, fattore non scontato, richiedono un tempo limitato di compilazione. Il che permette di raccogliere un alto numero di questionari su cui svolgere l’analisi necessaria a definire beni e servizi che dovrebbero essere prioritari nel welfare dell’organizzazione.

Si tratta di uno strumento che per lavoratori e lavoratrici è molto semplice e immediato da utilizzare e che garantisce loro l’anonimato, nel rispetto della normativa sulla privacy. Alle imprese restituisce invece un quadro chiaro e dettagliato delle rilevazioni e quindi dei veri bisogni della popolazione aziendale, facilmente visualizzabili e aggiornabili

Attraverso WIN, Walà e Secondo Welfare vogliono così aiutare quelle organizzazioni che scelgono di investire in maniera più attenta sul benessere dei propri collaboratori. Uno che strumento vuole essere un facilitatore per le imprese che vogliono mettere al centro le persone e le loro esigenze.

 

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Foto di copertina: fauxels, pexels