Non passa giorno senza che qualche statistica internazionale metta in luce il ritardo italiano in settori cruciali per il nostro futuro. In una società ferma sul piano demografico e sociale, un’economia poco competitiva e un settore pubblico che per decenni ha trasferito risorse «al contrario» (dal futuro al presente, tramite deficit e debito), l’unica chance di arrestare il declino è investire per il lungo periodo. Ricerca, innovazione, infrastrutture, tecnologia. E soprattutto capitale umano: asili, scuole, università, formazione, servizi sociali per l’inclusione, la conciliazione, il sostegno all’occupabilità.
Governare per il futuro non è certo un’impresa facile. La discrepanza temporale tra gli investimenti necessari (che impongono costi nel presente) e i loro effettivi benefici (che si dispiegano in modo lento e graduale, senza garanzie certe) richiede un grado di pazienza politica da parte degli elettori che non è facilmente disponibile nelle democrazie contemporanee. I ritardi italiani segnalano però un tasso di «corto-termismo» davvero patologico, esito di gravi carenze nella nostra cultura politica, nella competizione fra partiti, nelle prassi di governo. Carenze amplificate dalla quasi totale assenza, rispetto ad altri Paesi, di strutture pubbliche e private capaci di parlare, per così dire, a nome del futuro (delle nuove generazioni) e dei suoi «imperativi» per chi oggi governa.
Sul piano comunicativo, Renzi ha adottato sin dall’inizio un discorso imperniato sui temi del cambiamento e della rottura con il passato. Ma nell’azione di governo la consapevolezza degli «imperativi» è rimasta sinora piuttosto superficiale, non si è tradotta in un’agenda precisa e coerente. L’infrastruttura tecnica a supporto di politiche pubbliche con un orizzonte lungo è ancora debole, neppure minimamente paragonabile alla force de frappe di cui dispongono altri governi europei. Nel sociale, le due riforme più significative sono state sinora il Jobs act e la Buona Scuola. Provvedimenti importanti (soprattutto il primo), ma con un respiro temporale limitato. Nel Jobs act il piatto forte è uno scambio fra riduzione delle tutele contrattuali per i neoassunti e incremento delle prestazioni di disoccupazione. Poca l’attenzione e scarsissime le risorse per i servizi per l’impiego, l’occupabilità, la formazione permanente.
A sua volta la Buona Scuola ha inciso poco sui curricula, sulle competenze degli insegnanti e degli allievi e non ha previsto adeguate risorse per rafforzare i legami con il mondo del lavoro. Il perno della riforma è stata una misura essenzialmente distributiva: la stabilizzazione dei precari. Nell’ultima legge di Stabilità vi è stato il benemerito tentativo di affrontare il dramma della povertà educativa fra i minori. Vista l’incidenza spaventosa di tale fenomeno, l’investimento in questo settore dovrebbe essere da tempo una priorità nazionale. Ma alla fine si è deciso di mettere sul piatto solo centocinquanta milioni, con l’aiuto delle Fondazioni bancarie. Come non rimarcare poi, da ultimo, la quasi totale sparizione della cosiddetta «agenda donne» per accendere il motore dell’occupazione femminile?
Di qui al 2018, il clima politico si farà sempre meno propizio a decisioni orientate al lungo periodo. Per salvaguardare un po’ di spazio di manovra — almeno in qualche settore — il governo dovrebbe mettere a punto rapidamente un’agenda di misure concrete, corredata di dati e argomenti sui benefici attesi in termini di crescita, occupazione, competitività, eguaglianza di opportunità, mobilità sociale. E capace di illustrare con altrettanta chiarezza le implicazioni negative dei mancati investimenti. Si tratterebbe di una scommessa politica coraggiosa e rischiosa da parte del presidente del Consiglio. Ma sarebbe anche l’unica che meriterebbe di essere presa sul serio da quegli italiani a cui sta a cuore il futuro. Proprio e dei loro figli.
Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 13 marzo 2016