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Nel dibattito che ha fatto seguito all’annuncio dell’ormai celebre “IRI del Terzo Settore”, anche grazie ai contributi di Percorsi di secondo welfare (che potete rileggere cliccando quiqui), sono emersi diversi spunti e diverse ipotesi che – nel pensiero di coloro che sono intervenuti – dovrebbero essere considerate con attenzione.

Come ulteriore contributo abbiamo pensato di condividere con i lettori una conversazione con Filippo Addarii, Co-founder e Managing Director di PlusValue, una neocostituita società con base a Londra che offre servizi di ricerca e advisory per lo sviluppo di politiche volte alla creazione di società innovative per la produzione e gestione di beni comuni, innanzitutto mediante sistemi che permettono di allineare interessi pubblici ed interessi privati. Filippo Addarii ricopre anche il ruolo di Director of International Strategy e Head of EuropeLab presso la Young Foundation ed è fellow della University College London.


Quale è la sua prima e generale impressione sulla proposta avanzata da Enzo Manes e ormai conosciuta come “IRI del Terzo Settore”?

Comprendo l’intento di Enzo Manes di trovare una formula che manifesti l’imporantanza dell’iniziativa di governo a favore del terzo settore e lo condivido, ma la metafora è fuorviante: benchè volesse utilizzare un’immagine efficace, al contrario la scelta di Manes rischia di minare l’obiettivo stesso. Questo per due motivi. Primo, nell’immaginario degli italiani l’IRI è il carrozzone statale in cui entrano fondi che si perdono nei meandri della burocrazia senza risultati tangibili. Non è certo uno dei grandi progetti italiani la cui esperienza vogliamo ripetere. Secondo, riflette un mondo industriale che non esiste più. L’IRI è stato costituito quando esisteva un “paese Italia” in cui il governo teneva la cabina di regia, concentrando potere, risorse e sapere. Quell’Italia non esiste più da anni.


Perciò quali sono i tratti distintivi della situazione attuale in Italia? In che senso non sarebbero considerati dalla proposta di Manes?

Da tempo assistiamo in Italia a un processo di decentralizzazione di potere, risorse e sapere, dovuto, da una parte alla globalizzazione in senso ampio, ma anche, dall’altra, a forze centrifughe che caratterizzano il paese e la sua storia degli ultimi vent’anni. Girando per l’Italia ho osservato un sorprendente fermento di innovazione sui territori, mentre il centro resta immobile, impaludato nonostante gli sforzi dell’attuale Governo Renzi. Non sono il primo né l’unico ad osservare questo. Il problema italiano oggi è il centro di comando, con la mancanza di risorse materiali e creative del suo establishment, l’incapacità di attivare le forze vitali del Paese per raggiungere obiettivi strategici di interesse comune. L’emigrazione di centinaia di migliaia di giovani ogni anno è un sintomo del problema. Io sono uno di loro e ne comprendo le ragioni. Anche un’imprenditore come Manes dovrebbe esserne consapevole. La metafora dell’IRI riflette purtroppo tutto ciò che oggi in Italia è il problema, non la soluzione. Quindi è molto infelice l’espressione che è stata scelta. Il rischio è di proporre una visione e una strategia inadeguate alle condizioni attuali del paese. Per trasformare il modello sociale italiano l’intervento deve essere struttuale e articolato in tutte le sue dimensioni. La disponibilità di capitale attraverso un’iniziativa di governo è soltanto uno dei tanti aspetti della strategia.


Quindi ci sta dicendo che la proposta non tiene conto di quello che secondo lei oggi è il modello sociale italiano?

Presuppone un’asimettria tra una soluzione centralista e la realtà del Paese, del suo modello sociale, robusto e resiliente ma nel locale, ogni volta articolato differentemente a seconda del territorio. Questa economia del terzo settore, forte dell’identità territoriale e dei valori sociali specifici, si esprime e agisce efficacemente a livello locale, non su una dimensione nazionale e tanto meno come espressione di una strategia di un governo centrale. Questa è la grande differenza con la realtà britannica dove la regia è in mano al governo.


Quali sono le dimensioni che un intervento dovrebbe considerare e quali sono gli aspetti che ritiene strategici per un cambiamento del modello sociale italiano?

Se volessimo essere provocatori potremmo dire che non sono i soldi il punto di partenza. Pensare che in Italia si possa trasformare il terzo settore e sviluppare un nuovo modello sociale partendo solamente da un’iniezione di capitale è illusorio. Questo vale tanto per la filantropia quanto per la finanza. Perciò non propongo neppure semplicemente di sostituire la proposta di Manes con un fondo per la finanza d’impatto. Non sarebbe sufficente. La prova è nelle esperienze di altri Paesi che hanno già tentato questa strada. Il più famoso in Europa è il caso di Big Society Capital (600 milioni di sterline) nel Regno Unito. Ma pure la BEI si è cimentata nell’esercizio con il Social Innovation Accelerator che credo abbia raggiunto oggi una capitalizzazione di 600 milioni di euro. In entrambi i casi l’incidenza di questi fondi nel processo di trasformazione è ancora tutta da dimostrare. Il maggiore ostacolo è stata l’incapacità di questi veicoli di investire. Mancano le opportunità soprattutto perchè il terzo settore fatica ad approvvigionarsi di capitale che non sia a fondo perduto, mentre le imprese for profit ugualmente stentano a scoprire i benefici di una strategia di business che superi la logica di massimizzazione dei profitti. Tanto è vero che il governo britannico ha appena creato una nuova fondazione, Access, per finanziare la trasformazione di charities e imprese sociali: 60 milioni di sterline a fondo perduto. Mentre la BEI sta pensando di modificare la destinazione del Social Investment Accelerator (recentemente ricapitalizzato con 610 milioni di euro) per rispondere all’emergenza rifugiati. In conclusione io non partirei dall’idea di capital supply ma piuttosto dalla costruzione di un ecosistema che valorizzzi innanzitutto l’esistente, creando gli incentivi per la sua trasformazione. Quello che mi piace della proposta di Manes è l’idea di sostenere realtà del non profit italiano che già esistono. Mi sembra un ottimo inizio anche per ridimensionare l’attuale moda delle start-up.


A proposito di realtà non profit che già esistono e che andrebbero valorizzate, può fare qualche esempio italiano che conosce più da vicino?

In questi ultimi due giorni ho incontrato San Patrignano e Fondazione ANT con le quali lavoro, due gioielli italiani che operano in ambiti diversi – l’una sul recupero dalle tossicodipendenze, l’altra che fornisce cure palliative a malati terminali di cancro – con storia e modelli organizzativi molto differenti, ma entrambe nate per iniziativa privata e come risposta a dei problemi della comunità, proponendo una soluzione originale laddove in realtà mancavano soluzioni efficaci da parte delle istituzioni. Oggi entrambe le organizzazioni che si sono sostenute per decadi su volontariato e donazioni devono e vogliono cambiare profondamente, perché il modello tradizionale filantropico non è più sufficiente per garantire la loro sostenibilità. Questa è una loro constatazione, non soltanto la mia. Quindi sono gli stessi attori del non profit a riconoscere che la filantropia così come è non è sostenibile da sola. Un altro caso è quello dell’Antoniano di Bologna, l’organizzazione dei frati minori (francescani) che offre servizi sociali a tutte le categorie svantaggiate della città, inclusa una mensa per i poveri. Questo ente copre le prorie spese per tre quarti attraverso attività commerciali (tra cui il celebre Zecchino d’Oro), e solo la restante parte è coperta da donazioni filantropiche. Chissà quante sono in Italia le organizzazioni che per sostenersi hanno messo in atto forme ibride di attività. Perciò mi piace la mossa “riconosciamo i talenti e i valori delle grandi istituzioni italiane”, ma l’intervento deve essere per aiutarle a trasformarsi, non per potenziare un modello che loro stesse non riconoscono più come sostenibile. L’azione di governo, a mio avviso, dovrebbe essere proprio quella di creare un intevento di policy che operi in questo senso. Faccio un esempio: sia la Comunità di San Patrignano che Fondazione ANT producono valore sociale; le loro attività producono risultati che rientrano nella missione dello Stato; come mai lo Stato non “acquista” i risultati di queste organizzazioni? Questo è il cuore della proposta della finanza d’impatto rispetto alle politiche di governo. Questa sarebbe la riforma auspicabile che creerebbe le premesse per un nuovo mercato dell’impatto sociale, un uso più efficente delle risorse pubbliche, la crescita delle istituzioni non profit, lo sviluppo delle imprese sociali, opportunità di lavoro e, in ultima analisi, migliori servizi per i cittadini.


Quando richiama alla possibilità che le istituzioni pubbliche acquistino i risultati prodotti, a cosa si riferisce precisamente? E come porterebbe a regime tutto questo?

Mi riferisco ad esempio al caso di San Patrignano, che aiuta non solo a combattere la tossicodipendenza attraverso la prevenzione ma anche il recupero dei tossicodipendenti. L’organizzazione affronta dei costi nel finanziare le proprie attività, nella realizzazione del servizio, producendo benefici per gli individui, per le loro famiglie e per tutta la società, senza contare i risparmi per la spesa pubblica in forma diretta e indiretta. Tuttavia la Comunità non riceve rette o contributi né dallo Stato né dagli ospiti in percorso. È bello che le persone donino perchè San Patrignano possa svolgere la propria missione, ma è giusto dal punto di vista del contribuente che paga le tasse e che vorrebbe che queste risorse fossero utilizzate per ottenere risultati di questo tipo? Mi riferisco allo stesso modo anche al fatto che le ASL qui in Italia, troppo spesso non fanno convenzioni e non acquistano i risultati di Fondazione ANT per paura della concorrenza, benchè la fondazione abbia ripetutamente provato che la sua performance è più efficiente e il suo impatto sulle vite sia dei malati terminali sia dei loro familiari è di gran lunga superiore rispetto al servizio erogato dal pubblico. Perciò concluderei che la creazione del fondo ha senso soltanto se inscritta in una strategia volta a ridefinire il rapporto tra pubblico e privato. Serve una maggiore diffusione di approcci basati su partnership pubblico-privato, verso quello che sia un nuovo mercato dei beni comuni, in cui lo Stato possa acquistare i risultati prodotti da terzi garantendo il diritto all’accesso e la qualità dei servizi, e le organizzazioni – quelle citate così come tante altre, nel profit e nel non profit – possano produrre servizi migliori per i cittadini in modo più efficente con un risparmio per la spesa pubblica. Quello che propongo non mi sembra complesso. Altri Paesi hanno intrapreso questa strada da tempo proprio per salvare il modello sociale reinventandolo. Quello che ancora non capisco è se in Italia ci sia una volontà politica a intraprendere questo cammino, lungo e impervio, o si cerchino soltanto delle scorciatoie.


Un nodo sembra quello della scelta tra capitale filantropico o di investimento. Perchè nelle sue osservazioni questa distinzione non è presente?

Secondo me le diverse forme di capitale sono necessarie nelle diverse fasi del ciclo di vita di una impresa e di una organizzazione non profit. Per cui non voglio che si faccia di tutta l’erba un fascio. Il mio punto è che bisogna vedere la tipologia di capitale come uno strumento, quindi il punto è applicare lo strumento adeguato alla situazione e allo scopo corrispondenti. Quindi uso un cacciavite per avvitare una vite, mentre mi servo di un martello per piantare un chiodo. Non si piantano chiodi con un cacciavite. Detto questo riconosco il valore del capitale filantropico per determinati ambiti, come ad esempio, la ricerca scientifica di base e l’istruzione. Se prendiamo il caso dell’istruzione, che attiene al tema in esame, sarebbe errato cercare sostituire il servizio pubblico con uno privato a pagamento, soprattutto per l’istruzione obbligatoria. L’istruzione è un investimento sociale che non dà ritorni finanziari immediati e diretti, ma è la base per costruire la citadinanza e una forza lavoro capace e innovativa. Non si potrebbe rinuciare all’istruzione gratuita universale senza mettere a rischio la stessa sostenibilità delle imprese, che rischierebbero di perdere tutti i talenti che provengono da un background familiare svantaggiato. Questo però non significa che sia il pubblico a dover erogare il servizio. Oggi sono sempre di più le soluzioni del privato che offrono un servizio educativo di qualità accessibile quando non è gratuito. Che siano non profit o for profit e la corrispettiva scelta del modello finanziario è una questione che lascerei aperta all’imprenditorialità dei singoli: viva la molteplicità.


Secondo lei una certa contrapposizione un po’ classica e soprattutto statica tra filantropia e investimenti è in corso di superamento anche in Italia?

Certo. Ad esempio l’altro giorno parlavo con il presidente di Banca Sella, che mi raccontava di come la loro banca, con il SellaLab, investa sul territorio di Biella. In particoalre ha usato una espressione del tipo: “noi non facciamo più la filantropia delle sponsorizzazioni, usiamo il non profit per sostenere la nuova imprenditorialità”. Essenzialmente usano i grant per sostenere le start-up e tutte le nuove forme di imprenditorialità, che in futuro diventeranno le imprese e le organizzzazioni clienti della banca, motori dell’economia locale che garantisce il futuro della banca. Questo era il modello della Olivetti, di Adriano, che aveva compreso la sinergia virtuosa tra impresa e comunità. Non credo ci possa essere una discussione ideologica sul capitale: mi sembra ridicolo. Il capitale è soltanto un mezzo. Sono i fini che contano e dovrebbero essere oggetto di dibattio. Questo forse sarà un retaggio del mio prolungato soggiorno londinese. Eventualmente, un intervento importante da parte del Governo potrebbe essere quello di chiarire la propria visione circa l’uso del capitale e influenzare il comportamento degli attori economici attraverso incentivi appropriati.


Come vede il dibattito attuale intorno alla necessaria riforma del welfare statale e quali sono a suo avviso le questioni di fondo?

Io vorrei smettere di parlare di “welfare state” o “privatizzazioni”, perché il punto non è il modello o le modalità, ma i risultati. In tal senso si deve essere inflessibili sui risultati e molto flessibili sui modelli. Soprattutto in un Paese come l’Italia dove la soluzione adeguata emerge dal territorio. Questa è una delle lezioni che traggo dal saggio magistrale di Robert Putman Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy. L’Italia è il Paese dei mille campanili così come dei mille laboratori di innovazione. Il capitale sociale è espresso localmente e cresce sul territorio. In sostanza l’idea che ci sia una unica democrazia italiana è inadeguata. Alcuni territori hanno la capacità di rendere l’intervento dello Stato ridondante, perché nella storia hanno creato un tessuto di organizzazioni for profit, non profit e di partecipazione civile. L’intervento pubblico potrebbe essere minimizzato. Sicuramene non dovrebbe entrare in conflitto con le organizzazioni locali. Nella mia città natale, Bologna, le organizzazioni private e l’amministrazione pubblica sono spesso in competizione per fornire gli stessi servizi. Io sono un fautore della competizione, anche di quella tra pubblico e privato purchè si giochi tutti con le stesse regole. Quando manca un chiaro quadro di policy e non ci sono regole comuni allora questo tipo di competizione diventa soltanto uno spreco di risorse.


Quindi quale ruolo vede per lo Stato in un quadro che sembra basarsi essenzialmente su schemi o su esperienze che diremmo di secondo welfare?

Lo Stato dovrebbe intervenire direttamente laddove non ci sono alternative. Dovrebbe intervenire allo scopo di creare le condizioni affinchè emergano organizzazioni e imprese private a sostituirne l’azione sul lungo periodo, non per colonizzare il territorio. Capico che la proposta implichi un cambio di paradigma che rompe con la tradizione e che possa fare paura. Però, nel secolo della globalizzazione, allo Stato spettano compiti nuovi e di una scala mai vista prima come le crisi degli ultimi anni ci hanno dimostrato. L’erogazione dei servizi dovrà essere lasciata al privato una volta che il quadro istituzionale, le regole del gioco e gli obiettivi, sono stati definiti. L’alternativa è uno Stato che cercherà di occuparsi di tutto, finendo per fare tutto male. Però stiamo parlando di altre cose rispetto all’oggetto della nostra chiacchierata! Questi sono i problemi strategici che deve affrontare il paese. Il non profit ha un ruolo in questa partita. Però bisogna investire nella sua trasformazione. Perchè il non profit possa raccogliere la sfida, impari davvero a collaborare con il for profit e il pubblico. E questo deve avvenire all’interno di una nuova visione del welfare in cui il capitale è soltanto una leva.


Quello che emerge dalle sue riflessioni mi sembra che sia la necessità di un processo lungo e articolato: a quali vicende europee ritiene valga la pena guardare?

Questo processo di trasformazione è lungo e bi-partisan, perché ciò di cui stiamo discutendo è un progetto collettivo per costruire un nuovo modello di società del futuro e quindi non lo si può affidare alla tenzone politica del momento. Tanto è vero che se si osserva in dettaglio la costruzione del social impact market britannico, si tratta di un lungo processo, iniziato con Tony Blair e che ancora va avanti. Sono quindici anni che ci stanno lavorando, con una azione di sistema, non sempre coerente ma molto sperimentale. Approccio di sistema, lunga durata e sperimentazione sono gli aspetti più interessanti dell’esperienza britannica, non soltanto gli strumenti finanziari. E poi un riferimento molto importante è anche quello del Portogallo, perché anche un Paese in difficoltà profonde come il Portogallo ha avuto il coraggio (e la necessità) di intraprendere la stessa sperimentazione di sistema. Anche in Italia serve maggiore corraggio di sperimentare e una visione del futuro da costruire insieme ai cittadini, alle imprese e alle organizzazioni non profit.