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I recenti interventi sul tema dell’impresa sociale e dell’impact investing, mostrano chiaramente che il tema non può essere trascurato, nemmeno in Italia. Per questo vorremmo proporre qualche osservazione in tema di metriche e misurazione dell’impatto sociale. Non si tratta di pensieri originali e frutto di studi diretti, piuttosto è una prima reazione rispetto ad un dibattito complesso e talvolta anche un po’ autoreferenziale. Si tratta quindi di riflessioni che attengono più al metodo che non al contenuto del dibattito. In ogni caso l’idea di fondo è che il tema delle metriche per la misurazione dell’impatto sociale non può essere ignorato, anche se un po’ di relativismo potrebbe non nuocere al dibattito.

La linea generale che ci sembra utile proporre è quella richiamata al convegno di Fondazione Sodalitas svoltosi a fine marzo scorso con lo scopo di presentare il Quaderno Sodalitas dedicato proprio al tema della finanza sociale. In tale occasione e rispetto al nostro tema emersero alcuni interventi particolarmente significativi: da un lato penso a Flaviano Zandonai, il quale invitava proprio a considerare gli indicatori di impatto sociale per quello che sono, cioè indicatori e quindi strumenti, mezzi che non possono far perder di vista lo scopo; dall’altro Marco Morganti di Banca Prossima è intervenuto presentando una iniziativa che sta prendendo avvio e che, mentre mantiene lo spirito originale dei primi social impact bonds inglesi, supera il problema delle metriche affidandosi a più sicuri parametri legati al ritorno economico (di questa iniziativa particolarmente interessante ne abbiamo parlato in un articolo specifico).

Proviamo qui di seguito a sviluppare le due provocazioni che abbiamo raccolto nel pomeriggio di riflessioni sullo stato dell’arte della finanza sociale. Entrambe sembrano infatti “smontare” due miti che circondano il tema delle metriche per la misurazione dell’impatto sociale: il primo è quello per cui la misurazione dell’impatto sociale deve essere qualcosa di oggettivo; il secondo è che senza misurazione dell’impatto sociale non c’è impact investing.


Primo mito: la misurazione è oggettiva

L’idea che un indicatore sia, appunto, un indicatore, nella sua banalità non è affatto scontata. Come abbiamo avuto modo di segnalare anche “raccontando” alcune recenti ricerche di Lester Salamon, la rivoluzione alle frontiere della filantropia e dell’impact investing è stata in buona parte accolta da un entusiasmo talvolta poco ponderato, soprattutto perché basato su una retorica affascinante ma distante dalla complessità delle problematiche poste dalla realtà. Il tema delle metriche di misurazione dell’impatto è una colonna portante della nuova retorica dell’impact investing e non è di certo un elemento accessorio per lo sviluppo di un mercato di investimenti sociali. Tuttavia la ricerca di metriche per la misurazione dell’impatto sociale quanto più possibile oggettive sembra smarrire alcune premesse che invece andrebbero sempre tenute ben presenti.

Rapidamente si può far cenno al fatto che ogni misura è determinata in funzione dello scopo per il quale si intende misurare e dalla posizione che il soggetto “misurante” assume rispetto il “misurato”. Se infatti devo stabilire se un determinato oggetto può contenerne un altro, cercherò un sistema di misurazione che consideri altezza, larghezza, profondità e quindi, in termini generali, dimensioni. Se invece dovessi sapere se un determinato oggetto è trasportabile da una certa persona, non mi limiterò ad uno studio delle dimensioni, ma senz’altro provvederò a considerare peso dell’oggetto e “capacità di carico” del trasportatore. Insomma, scopo che hai misura che usi. Nelle esperienze riconducibili alla finanza sociale si annoverano numerosi e tra loro diversi soggetti, i quali si differenziano per lo scopo del loro agire e quindi per la posizione che reciprocamente assumono. D’altra parte il problema del rapporto tra “misurante” e “misurato” si pone non di rado anche in altri ambiti: un insegnante è “misurato” da uno studente sulla capacità che ha di spiegare e far comprendere e appassionare l’alunno; uno studente è “misurato” dall’insegnante sulla capacità che ha di apprendere e sull’impegno che mette nell’imparare. Si capisce allora che l’oggettività delle metriche di una qualunque misurazione è – a seconda di chi la persegue – estremamente soggettiva.

Tuttavia, ciò che è soprattutto importante considerare nell’affrontare il tema delle metriche di misurazione dell’impatto sociale, come di qualunque altro possibile elemento, è che se alcune realtà sono misurabili, altre non lo sono. Poi attraverso espressioni metaforiche si può anche dire nel parlato corrente che “questo o quell’aspetto è stato misurato”, ma appunto si tratta di linguaggio figurato. Nessuno infatti crede che quando un giudice stabilisce l’entità di un risarcimento per omicidio colposo considerando vari parametri come l’aspettativa di vita e la posizione lavorativa rivestita dal defunto, stia realmente misurando il valore di quella vita. Ma si pensi anche a qualcosa di più semplice: una idea, un pensiero o un giudizio possono costituire l’avvio di una azione che ha come conseguenza il salvataggio o l’eliminazione di diverse vite umane. Qualche quantificazione dei benefici o dei danni potrà pure essere effettuata, ma chiaramente è impossibile misurare una idea, un pensiero o un giudizio. Ancora, è molto interessante seppur scivoloso il piano morale della misurazione e conseguente monetizzazione di determinate attività o opportunità: non tutto può essere “comprato”, perché quando ciò avviene esistono sempre dei costi sociali o anche “solo” morali o di giustizia che rendono tale acquisto controproducente tanto per il singolo che per la collettività (per questo livello del discorso però si rimanda al celebre lavoro di Michael Sandel, non essendo questo il luogo per un suo adeguato approfondimento).

Più in generale occorre quindi sottolineare una ovvietà. Le misurazioni di realtà finite si realizzano attraverso l’adozione di unità di misura convenzionalmente stabilite e che peraltro non esistono in realtà. L’unità di misura che si utilizza per apprezzare il peso di un oggetto è il grammo: tuttavia il “grammo” non esiste negli stessi identici termini nel mondo finito, è un concetto. Le misurazioni di realtà non finite (connesse ad esempio alla percezione che un individuo ha di se stesso o alla disponibilità ad accettare chi è diverso) possono talvolta essere rappresentate anche in termini quantitativi, ma si tratta di una rappresentazione che – per quanto accurata – rimarrà sempre una rappresentazione, ossia qualcosa di diverso e distinto dalla realtà, che, ancora come sopra, non esiste negli stessi termini nel mondo finito.

Quello che appare quindi chiaro è l’impossibilità di assolutizzare indicatori utili a misurare l’impatto sociale. Ciò non significa abbandonare il loro studio e nemmeno il loro utilizzo, come d’altra parte avviene nell’ambito dell’economia tradizionale, dove gli indicatori svolgono il ruolo di indicatori da molto tempo, ma tutti sanno che non hanno valore assoluto e le “sorprese” sono più frequenti di quanto si possa presumere. Dunque, un certo grado di relativismo dovrebbe essere concesso al tema delle metriche di misurazione dell’impatto sociale, come d’altra parte dovrebbe avvenire per ogni tipo di metrica.

Secondo mito: la misurazione è indispensabile

Al netto della specifica disciplina giuridica in materia di redistribuzione degli utili, che non è chiaramente fattore secondario per poter parlare di investimenti in imprese sociali, è chiaro che alcune di queste sono realtà produttive attive in settori industriali non necessariamente sociali o – secondo l’ormai obsoleta espressione – non profit. Una impresa cooperativa che si occupasse di offrire lavoro a soggetti svantaggiati attraverso il loro inserimento nei propri processi di produzione, mentre persegue senza dubbio alcuno finalità sociali, tuttavia si trova a misurarsi con problemi connessi alla qualità dei prodotti che intende offrire al mercato. Se tali prodotti non avessero mercato ovvero se i costi della produzione fossero eccessivi rispetto ai possibili ritorni, l’impresa presto o tardi si troverebbe nella necessità di chiudere i battenti, così perdendo anche la propria capacità di generare impatto sociale. Nel caso contrario, invece, qualora l’impresa riuscisse a raggiungere performance aziendali significative e fosse al tempo stesso abile nella promozione del proprio prodotto, potrebbe ottenere ritorni tali da renderla sostenibile e forse anche profittevole. In tal caso, le vicende economiche dell’impresa sarebbero trainanti rispetto l’impatto sociale, perché un buon riscontro del mercato rispetto al proprio prodotto potrebbe suggerire l’idea di aumentare la produzione o attivare nuove linee, così portando l’impresa ad assumere nuovi lavoratori e incrementare l’impatto sociale perseguito.

In altri termini si può dire che “sociale” ed “economico” si possono combinare in diversi modi: un conto è il perseguimento di obiettivi economici attraverso attività sociali, un altro è il perseguimento di obiettivi sociali attraverso attività economiche. Ovviamente non si tratta di una alternativa secca, ma piuttosto di un modo del “fare impresa”, un modello di business. Ancora, una impresa sociale o una cooperativa potrebbero erogare servizi di assistenza attraverso l’impiego di dipendenti appartenenti a categorie di lavoratori svantaggiati, riscontrando un notevole successo in termini di gradimento del servizio e quindi vedendo crescere la richiesta rispetto a quel determinato servizio che fino ad allora era magari rimasto insoddisfatto: la bontà economica dell’impresa sarebbe quindi funzionale rispetto alle finalità sociali perseguite. Diverso è il caso dell’associazione che si prodigasse a promuovere determinati temi in specifici contesti o anche ad erogare gratuitamente servizi di assistenza e formazione sulla base di lavoro volontario: l’assenza di costi per l’erogazione dei servizi e l’assenza di ritorni dovuta alla loro gratuità non eliminerebbero ovviamente alcune spese legate alla gestione dell’associazione, la quale dovrebbe trovare sovventori disponibili a sostenerla economicamente. Qui i donatori potrebbero in effetti interrogarsi sull’impatto sociale generato dalle attività della realtà che sostengono. In questa ultima ipotesi appare chiaro che la bontà sociale delle attività dell’associazione risulta essere la finalità dell’impegno economico, senza peraltro far venir meno una logica complessiva di efficienza del sistema, posto che le capacità dei volontari potrebbero esser tali da generare un impatto sociale economicamente superiore ai costi sostenuti dai donatori.

Pertanto non si può che considerare un mito l’idea per la quale la misurazione dell’impatto sociale sia indispensabile se si vogliono attirare investitori. La necessità di adeguate metriche di misurazione dipende molto dal modello di business che l’impresa sociale o l’operatore del terzo settore adottano. Infatti in alcuni casi possono esistere imprese sociali che possiedono i “fondamentali” per divenire generatori di profitti e quindi oggetto di investimento.


Conclusione

Mentre il movimento dell’impact investing, come d’altra parte quello dell’impresa sociale, richiede al pensiero economico mainstream una visione plurale dell’economia, non si può immaginare che al suo interno sia postulato qualcosa di diverso: non si può pensare che esista un unico modo di fare finanza sociale, ossia quello che poggia tutto sulle metriche, ma si deve accettare che in questa grande evoluzione esistano diversi modi di interpretare il sociale, realizzare l’impatto e utilizzare il mezzo del profitto. Questo è quanto sembra emergere non solo dalle opinioni di autorevoli studiosi ed operatori come quelli in apertura citati, ma soprattutto dai fatti e dalle esperienze di cui questi raccontano.

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