Il dibattito sulla riforma della scuola è iniziato bene ma sta finendo malissimo. Nel secondo semestre del 2014, il governo aveva organizzato un’ampia consultazione pubblica, ricevendo quasi due milioni di commenti. Sembrava che sui principali obiettivi del progetto vi fosse un largo consenso.
Con l’inizio dell’iter parlamentare, tuttavia, è scattato il tradizionale "richiamo della foresta": quel misto di corporativismo e ideologia dal quale il nostro Paese sembra incapace di liberarsi quando arriva il momento di cambiare davvero. I sindacati hanno trasformato il confronto con il governo in una vertenza su assunzioni, carriere, tutele contrattuali e poteri dei dirigenti scolastici. Le opposizioni (a cominciare da quella interna al Pd) hanno riesumato i vecchi slogan: è una riforma di destra, una minaccia al carattere pubblico e democratico dell’istruzione, un tentativo di "aziendalizzare" l’organizzazione scolastica, un attentato (addirittura) alla libertà d’insegnamento. Petizioni di principio e caricature ideologiche che ci riportano alle contestazioni degli anni Settanta.
Una vera riforma deve proporsi di incidere sui pilastri portanti del nostro sistema d’istruzione. La posta in gioco è altissima e ha a che fare con la capacità dell’Italia di entrare nel ristretto club delle "società basate sulla conoscenza": le sole che, nel Vecchio Continente, riusciranno a garantire prosperità, occupazione e, al tempo stesso, eguaglianza di opportunità e inclusione sociale. La chiave di questo passaggio sono le competenze dei giovani, lo spessore e la varietà della loro preparazione culturale. Oltre e forse più delle nozioni, conteranno le abilità logiche e di ragionamento, la capacità di riconoscere problemi complessi (inclusi i conflitti di valore), la rapidità di apprendimento. Ciò richiede un cambiamento davvero epocale nel modo di fare scuola.
I programmi ministeriali uguali per tutti, la rigida separazione fra materie e percorsi, le lezioni ex cathedra, i moduli educativi standardizzati: tutto questo va rimesso in discussione, per molti aspetti superato. Come ben documentano le ricerche della Fondazione Agnelli, in molti Paesi Ue la rivoluzione formativa è già bene avviata. Nel Nord Europa la scuola pubblica sta acquisendo un ruolo quasi più importante del welfare. Non solo perché alimenta l’economia della conoscenza, ma anche perché garantisce chance di mobilità per gli studenti più svantaggiati. Contrastando così quelle spinte verso la polarizzazione fra classi e fasce di reddito che inesorabilmente si accentuano nelle fasi di transizione da un modello economico-sociale a un altro.
Considerando quest’ultimo aspetto, per l’Italia la scommessa della scuola ha anche un significato politico. L’istruzione statale deve continuare ad essere percepita come bene comune di tutti gli italiani. Se invece le classi medie si convincessero che la scuola pubblica non fornisce ai loro figli preparazione adeguata al nuovo contesto, il sostegno politico nei suoi confronti si eroderebbe rapidamente. In base ai confronti internazionali, i fattori decisivi per una scuola efficace sono: decentramento e flessibilità dell’offerta formativa, responsabilità dei dirigenti, qualità degli insegnanti, valutazione, attenzione agli studenti svantaggiati. E ci sono elementi del progetto governativo che vanno in queste direzioni. Certo, restano molti dettagli da chiarire e non è detto che gli obiettivi vengano raggiunti. Occorrerà monitorare, valutare, se necessario correggere la rotta. Per partire con il piede giusto, bisogna però resistere ai richiami della foresta. I sindacati facciano il loro mestiere, ma non pretendano di porre veti. A loro volta, le opposizioni si dimostrino all’altezza della sfida. Una riforma della scuola non può servire obiettivi di parte o tattiche di posizionamento politico. E una riforma deve riguardare l’interesse generale, il sistema Paese nel suo complesso. Quello di oggi e quello di domani.
Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 20 maggio