Tempi difficili per il sindacalismo europeo. Gli iscritti calano, soprattutto fra i giovani. La capacità di incidere sulle decisioni dei governi è diminuita: la concertazione sopravvive (in forma indebolita) solo nei Paesi nordici. Il raggio della contrattazione collettiva si è ristretto, sia in termini di contenuti che di imprese coinvolte. I sondaggi ci dicono che buona parte dei lavoratori europei pensano che i sindacati siano utili in linea di principio, ma non hanno fiducia nelle organizzazioni esistenti. Molti fattori spiegano la crisi: nuovi modi di produrre, il minor peso del lavoro industriale, la flessibilità contrattuale, la possibilità per le imprese di delocalizzare all’estero. Vi sono tuttavia anche precise responsabilità politico-culturali. Di fronte al mutamento, i sindacati hanno adottato strategie difensive, volte soprattutto a tutelare i loro iscritti, perdendo così capacità di rappresentanza. Tutto vero. Il colpo di grazia è però arrivato dal processo di integrazione europea. L’Unione economica e monetaria ha centralizzato le principali decisioni di politica fiscale, assoggettandole a regole semiautomatiche. Per chi rappresenta i lavoratori, esercitare influenza a Bruxelles è più difficile che farlo nelle capitali nazionali. Ma almeno bisogna provarci. I sindacati si sono ripiegati su se stessi, invece di coordinarsi hanno scelto la via del «corporativismo competitivo» fra Paesi: mors tua, vita mea.
L’esempio più emblematico è venuto dalla Germania. Dopo l’uscita di scena del ministro «euro-keynesiano» Lafontaine nel 1999, i sindacati tedeschi si sono preoccupati solo di difendere coi denti i posti di lavoro nazionali. Hanno scelto di chiudersi a riccio nei confronti di qualsiasi progetto transnazionale mirante a «ribilanciare» le ragioni dell’austerità con quelle della crescita a livello Ue. Nel 2012 il segretario della IG-Metall, la federazione tedesca che rappresenta i lavoratori del settore metallurgico, accusò i sindacati spagnoli di fare richieste irragionevoli al loro governo, e si oppose a qualsiasi (concreto) coordinamento delle politiche salariali fra Paesi e all’elaborazione di una piattaforma comune «anti troika». Sarebbe troppo facile accusare la IG-Metall di aver tradito la propria vocazione internazionalistica: quando i tempi si fanno duri, è naturale che ciascuno giochi per sé. Ed è anche vero che, in alcuni casi e momenti, i sindacati sudeuropei hanno effettivamente adottato strategie irragionevoli, boicottando riforme eque e intelligenti. Il gioco tedesco è tuttavia diventato oggi incompatibile con la ripresa delle economie periferiche. Il «corporativismo competitivo» va superato e perché questo avvenga occorre una approfondita riflessione fra i sindacati del Nord e quelli del Sud. Ciò che serve è una efficace (e «ragionevole») piattaforma comune per promuovere la crescita economica e l’inclusione sociale.
Purtroppo nei Paesi periferici non pare questa l’agenda, i principali sindacati sembrano orientati verso altre strategie. Da un lato, l’arroccamento a difesa dello status quo nazionale. Dall’altro lato, la radicalizzazione, l’inseguimento dei movimenti sociali, nel tentativo di recuperare visibilità e vigore tramite le piazze anziché tramite un paziente (e più difficile) lavoro di progettazione istituzionale e una politica di alleanze transnazionali. Maurizio Landini ha ragione quando parla di una platea sociale sulla quale si sono scaricati i costi della crisi. Ma una strategia basata sulla protesta e sull’attacco alle riforme non risolverà il problema. La risposta efficace deve essere cercata in Europa, il disagio va fatto valere laddove si decidono le priorità Ue: in questa fase, ad esempio, il processo di revisione di «Europa 2020», soprattutto negli obiettivi che riguardano la lotta alla povertà, il rafforzamento della scuola, la creazione di posti di lavoro. I margini per incidere ci sono, purché non ci si illuda sulle forme di mobilitazione collettiva. Soprattutto se accompagnate solo da proclami, e non da (ragionevoli) argomenti.
Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 17 marzo
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