“Ci siamo messi in lista d’attesa, abbiamo indicato alcune preferenze e ci hanno assegnato un posto a 200 metri da casa. Non abbiamo fatto nessuna fatica e ora paghiamo circa 150 euro al mese, che è la fascia più alta”.
Donato Chieppa sta parlando dell’asilo nido di sua figlia Stella.
È italiano, ma da anni vive in Svezia, a Stoccolma.
Da un lato, racconta con naturalezza la sua positiva esperienza con i servizi per l’infanzia locali. Dall’altro, gli rimane nella voce una punta di sorpresa, perché sa che il vissuto dei genitori in Italia coi nidi è radicalmente diverso, con pochi posti e spesso molto cari.
È da questa differenza, così evidente, che iniziamo a conoscere il caso della Svezia e le sue politiche per la conciliazione vita-lavoro, la famiglia e, infine, la natalità. “Soprattutto per un Paese come l’Italia che investe poco in politiche per la famiglia, la Svezia rimane un punto di riferimento”, commenta Francesca Luppi, docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano.
È soprattutto per tale ragione che abbiamo deciso di occuparci di questo Paese per Denatalitalia, la serie con cui Secondo Welfare vuole capire come affrontare i problemi legati alla natalità imparando anche dalle esperienze internazionali.
Non pagare, ma permettere
Il perché Luppi parli di punto di riferimento è chiaro guardando ai dati: la Svezia ha una fecondità ben superiore a quella italiana, con una media di 1,67 figli per donna contro i nostri 1,21 (dati Eurostat, 2021). Il dato è maggiore anche di quello medio dell’Ue (che si ferma a 1,53 figli) e colloca Stoccolma tra i primi cinque Paesi dell’Unione per fecondità.
Eppure, a differenza di altri stati come la Francia o l’Ungheria, le politiche di questo Paese non hanno mai avuto come obiettivo primario quello di spingere la natalità.
“Insieme agli altri Paesi nordici, la Svezia è uno dei precursori europei nel fornire una serie di politiche familiari per sostenere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro attraverso la promozione della parità di genere”, riprende Luppi. “Queste politiche sono state concepite con l’obiettivo di favorire la conciliazione lavoro-famiglia, per consentire alti livelli di occupazione nella popolazione attraverso la diffusione del modello di coppia a doppio reddito/doppia assistenza”, ma, continua la ricercatrice, “hanno influenzato indirettamente il livello di fecondità in Svezia, che è tra i più alti nei Paesi ad alto reddito”.
“In Svezia non paghiamo le persone per fare figli, dando loro degli incentivi economici, ma rendiamo possibile organizzare la propria vita con dei figli in modo pratico e con sostegni adeguati”, sintetizza Gunnar Andersson, responsabile dell’Unità di demografia dell’Università di Stoccolma.
In pratica, la Svezia non ha puntato su bonus o assegni che vanno a famiglie con un certo reddito o un dato numero di figli, ma su politiche universalistiche, cioè uguali per tutti perché si rivolgono ai singoli individui e non alle famiglie nel loro complesso.
“L’idea di fondo – ragiona Luppi – è di limitare i costi economici e di tempo che la scelta di fare figli inevitabilmente comporta, per consentire alle persone di realizzare la fecondità che vogliono”.
Sostegno alla famiglia: politiche dirette e indirette
In Svezia, quindi, il sistema non costringe le donne a scegliere tra figli e lavoro, come invece accade in Italia dove, stando agli ultimi dati Inps, anche nel 2022 44.000 madri hanno lasciato la loro occupazione per difficoltà legate alla conciliazione.
“Ho letto quel dato”ci dice Chieppa, che nonostante gli anni e la distanza cerca di tenersi informato su cosa accede nel nostro Paese. “Ho pensato che mia moglie dopo la maternità è tornata a svolgere l’incarico di responsabilità che aveva prima della nascita di Stella e, a pochi mesi dal rientro, è stata anche promossa”.
Il contrasto con l’Italia suona ancora una volta stridente, ma quali sono le misure che rendono possibile questa situazione in Svezia?
Le equilibriste: cosa significa avere (o non avere) figli nell’Italia del 2023
Luppi, in un saggio per Neodemos, spiega che “un generoso sistema di congedi parentali, accordi di lavoro flessibili e un basso divario occupazionale tra i sessi incentivano la partecipazione delle madri al mercato del lavoro, anche grazie a servizi di assistenza all’infanzia di alta qualità e altamente accessibili, mentre il costo relativo della crescita dei figli è mantenuto a livelli bassi grazie al generoso programma di assistenza all’infanzia.
“Inoltre” continuata il saggio “a partire dagli anni Cinquanta sono state ideate diverse forme di sostegno finanziario per le famiglie con figli, al fine di ridurre le disparità di opportunità per i bambini dovute alle disuguaglianze di reddito e di appianare le disuguaglianze finanziarie tra chi ha figli e chi non ne ha”.
In concreto, oggi, per chi ha figli in Svezia ci sono due strumenti principali di sostegno.
- Da un lato c’è l’assegno per i figli (barnbidrag), che i genitori ricevono automaticamente dal primo mese successivo alla nascita fino al compimento del 16° anno di età del bambino, per un importo uguale per tutti di 1.250 corone svedesi, che sono circa 110 euro mensili.
- il congedo parentale (föräldrapenning). Entrambi i genitori ricevono insieme 480 giorni di indennità parentale per ogni figlio che vengono distribuiti a scelta dei genitori stessi e che possono essere trasferiti da un genitore all’altro fino a un massimo di 150 giorni. Di questi 480 giorni, 390 sono pagati come giorni di malattia fino a un massimo di circa 91 euro al giorno e 90 giorni sono giorni di indennità minima, che è pari a circa 16 euro al giorno. I giorni di congedo non possono essere presi contemporaneamente da entrambi i genitori, ma durante il primo anno di vita del bambino, entrambi i genitori hanno la possibilità di usufruire del congedo parentale nello stesso periodo per un massimo di 30 giorni (i cosiddetti “giorni doppi”). Infine, la madre incinta può iniziare a percepire l’indennità parentale 60 giorni prima del parto previsto mentre, in occasione della nascita, anche l’altro genitore può beneficiare di un congedo temporaneo di 10 giorni per la nascita o l’adozione del bambino.
Dati su cui riflettere
C’è poi tutto l’ampio capitolo dei servizi, a cominciare dagli asili nido. In Svezia, la copertura di posti nei servizi per l’infanzia 0-2 anni è sopra i 54 posti ogni 100 bambini. La media UE è del 35, il dato italiano è fermo al 30, secondo gli ultimi dati Eurostat disponibili.
Nel 2019, una ricerca dell’Unicef ha messo a confronto le politiche per la famiglia tra i Paesi UE, esaminando la prestazione di ciascun Paese sulla base di quattro parametri. Il risultato ha visto la Svezia al primo posto della classifica, seguita da Norvegia e Islanda. Del resto, sempre secondo Eurostat, Stoccolma spende per il sostegno alle famiglie il 2,4% del PIL, facendo registrare una quota simile a quella di Paesi come l’Ungheria o la Francia e investendo più del doppio di quanto fa il nostro Paese (1,1%, dato 2021).
Senza contare che su fecondità e natalità incidono anche altri fattori, come per esempio il funzionamento del mercato del lavoro o l’accessibilità della casa, soprattutto per i giovani e le famiglie che, in Svezia, possono contare su alcuni su sussidi dedicati.
Infine, c’è una questione culturale. “Rispetto all’Italia e all’Europa meridionale, in Svezia, non esiste un sistema familistico particolarmente forte. La cultura e la società sono organizzate intorno all’idea di conciliazione vita-lavoro come valore condiviso”, spiega Andersson. Le imprese, per esempio, garantiscono flessibilità ai genitori, e a volte integrano anche l’importo previsto dai congedi parentali con ulteriori sostegni economici.
“Per noi è effettivamente così”, dice Chieppa riferendosi a quest’ultimo aspetto. “C’è molta flessibilità. Per esempio, capita che esca dall’ufficio alle 15.30, vada a prendere mia figlia al nido e poi riprenda a lavorare da casa”, conferma. “Insomma – conclude – la conciliazione non è sempre facile, ma paragonando questo sistema con quello italiano, diventa difficile trovare dei lati negativi”.
Eppure, anche in Svezia le nascite sono in calo. Da ormai diversi anni.
Le politiche non bastano
Nel 1990 il tasso di fecondità svedese era di 2,13 figli, in media, per donna, sopra il tanto agognato tasso di sostituzione necessario per mantenere una popolazione stabile. Il dato è poi sceso fino a 1,57 nel 2001 poi è nuovamente risalito, registrando il suo nuovo massimo nel 2009. Quindi, il calo. Non forte, non rapido, non drammatico come quello italiano, ma costante.
“In Svezia nascono sempre meno bambini, mentre l’età media delle madri al primo parto si alza. Gli ultimi dati forniti da Statistics Sweden mostrano che i tassi di fecondità in Svezia sono diminuiti ogni anno dal 2009 e che l’età media al primo parto è la più alta da molto tempo” si legge in un articolo di Daniel Rossetti sul sito Population Europe.
Il caso svedese non è isolato. Rossetti continua spiegando che “i calo dei tassi di natalità è da tempo oggetto di discussione nell’Europa meridionale e orientale”, ma che “negli ultimi anni, tendenze simili si sono manifestate anche tra i nostri vicini nordici. La questione è stata inserita nell’agenda politica sia in Norvegia che in Finlandia, con il primo ministro norvegese Erna Solberg che ha recentemente incoraggiato la popolazione ad avere più figli”. In Svezia, il dibattito pubblico non se ne sta ancora occupando, ma la situazione è simile a quella degli altri paesi scandinavi.
Il punto è, a fronte del quadro descritto fino a qui, capire perché questo stia avvenendo.
Il professor Andersson prova a rispondere andando per esclusione: “Non ci sono stati cambiamenti significativi delle politiche per la famiglia e non ci sono condizioni economiche negative, che possano aver determinato questo calo, come era avvenuto in passato”, ragiona.
La sua spiegazione è, quindi, “un ambiente di crescente incertezza” dettata forse dalla crisi climatica e dalla situazione internazionale. Spiega che il calo riguarda diversi paesi dall’elevata fecondità, come appunto i Paesi nordici ma anche alcuni anglosassoni e precisa che, in Svezia, i minori tassi di fecondità non interessano nessun gruppo socio-economico nello specifico. “È qualcosa che riguarda tutti. Le coppie si formano come prima, ma non fanno il primo figlio. Per questo pensiamo che la ragione sia la mancanza di fiducia nel futuro”.
Nemmeno delle ottime politiche, insomma, bastano più a garantire tassi di fecondità elevati.
O, almeno, non bastano da sole. Oppure, ancora, dopo tanto tempo, finiscono per essere considerate scontate e quindi vengono messe in ombra da altre preoccupazioni.
Le ipotesi sono diverse e tutte ancora da approfondire, studiare, verificare.
Quel che è certo è che, al netto del calo degli ultimi anni, il caso svedese può essere comunque preso ad esempio. E alcuni Paesi già lo hanno fatto. La Germania è uno di questi.
Berlino copia, Roma rimanda(ta)
“In Germania ci ho lavorato quando il Paese ha deciso di basarsi sul modello nordico, con una quarantina d’anni di ritardo”, ricorda Andersson. Secondo il professore, le riforme fatte da Berlino “hanno influito piuttosto bene sul tessuto sociale” generando un impatto positivo sulla fecondità, ma anche sulla partecipazione femminile al lavoro.
In media, nel 2001, le donne tedesche facevano 1,39 figli che, nel corso degli anni, sono andati aumentando fino a raggiungere l’1,58 nel 2021, riporta Eurostat. Per quanto riguarda invece il lavoro, nel 2022 oltre il 76% delle donne tedesche aveva un impiego mentre tra quelle italiane il dato si ferma al 55%.
“La Germania, di fatto, ha copiato la Svezia, ma riadattando il modello svedese secondo le specificità tedesche. Dovremmo farlo anche noi”, sostiene Luppi.
Certo, la docente sa che la questione è complicata perché vorrebbe dire colmare in poco tempo un gap culturale, politico ed economico che si è andato formando in decenni, dal momento che la Svezia ha iniziato le sue politiche già negli anni Settanta.
“In Svezia i servizi sono ampi e gratuiti per tutti, e in più ci sono assegni specifici per i redditi bassi. L’Italia, invece, punta su detrazioni fiscali e trasferimenti per compensare la carenza e i costi elevati dei servizi”, continua la professoressa dell’Università Cattolica. In pratica, la coperta del bilancio pubblico italiano è corta, non è in grado di coprire tutti coi servizi e, quindi, lo Stato fa quel che può con altre politiche, non universali. E per quanto la recente riforma dell’Assegno unico universale vada in un certo senso in questa direzione, presenta comunque dei limiti.
Chiarito questo, anche senza stravolgere le finanze pubbliche, ci sarebbe comunque una priorità sulla quale avrebbe senso concentrarsi, secondo Luppi. E sono proprio gli asili nido dei quali parlava Chieppa all’inizio.
“Avere più posti più accessibili negli asili nido sarebbe cruciale”, sostiene Luppi.
E però la recente revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza ha abbassato proprio gli obiettivi in questo ambito. Dopo le numerose difficoltà incontrate nei primi bandi, la modifica approvata dalla Commissione Ue rivede il target finale degli asili nido e delle scuole dell’infanzia, portandolo da 264.480 posti a 150.480. “È sconfortante”, conclude Luppi.