Lo scorso anno, il 4 ottobre 2022, il Consiglio europeo ha approvato la Direttiva inerente la legislazione sui salari minimi adeguati. Stando alle indicazioni della Direttiva, gli Stati membri hanno sino ad ottobre 2024 per recepirne i contenuti nel proprio diritto nazionale. L’approvazione della Direttiva ha generato un fervente dibattito nel nostro Paese che ha coinvolto  sindacati, partiti politici e associazioni datoriali, così come in molti altri parti d’Europa.

L’adozione di un salario minimo adeguato non è infatti obbligatoria per tutti gli Stati membri: l’’art. 25 della Direttiva afferma che solo gli Stati membri con un tasso di copertura della contrattazione collettiva inferiore all’80% sono tenuti ad adottare misure volte a rafforzarla, come appunto il salario minimo. Questo perché gli Stati membri con un’elevata copertura della contrattazione collettiva tendono ad avere una più bassa percentuale di lavoratori a basso salario. Pertanto, nel rispetto della contrattazione collettiva e delle parti sociali, la soglia inferiore all’80% – secondo la Direttiva – dovrebbe essere interpretata come un indicatore che fa “scattare” l’obbligo di elaborare un Piano d’Azione. Al contrario, se la soglia è superiore all’80%, tale obbligo non sussiste. 

I contributi di Secondo Welfare sul salario minimo

Che cos’è
Cosa prevede la direttiva UE che lo regola
Come si è evoluto il dibattito italiano sullo strumento

Italia, Svezia e Danimarca rientrano tra i Paesi che non hanno un salario minimo stabilito per legge1 e che al contempo non sono obbligati a implementarlo nelle proprie legislazioni nazionali poiché hanno un tasso di copertura della contrattazione collettiva superiore all’80%. Nonostante ciò, i due Paesi scandinavi si sono fortemente opposti all’introduzione di un salario minimo adeguato e sono stati gli unici due Stati membri a votare contro la Direttiva. Secondo i rappresentanti politici di Stoccolma e Copenhagen, la scelta UE minerebbe i principi fondanti – ormai secolari – del mercato del lavoro e del welfare state del c.d. “modello nordico”.  

Comprendere le posizioni di Svezia e Danimarca ci appare quindi utile per capire alcune cose che potrebbero interessare anche il dibattito nel nostro Paese, che negli ultimi mesi si è fatto più intenso, ma sicuramente non più profondo. 

Le radici dell’opposizione di Svezia e Danimarca alla Direttiva sul salario minimo

Sin dall’inizio dell’iter legislativo europeo, Svezia e Danimarca hanno dichiarato piena opposizione all’obbligo di introdurre un salario minimo adeguato.  Questo è stato reso evidente dalla posizione dei partiti socialdemocratici e socialisti svedesi (Socialdemokratiska Arbetarepartiet e Sverigedemokraterna) e danesi (Socialdemokratiet e Socialistisk Folkeparti), che sono state da sempre divergenti rispetto a quelle degli altri partiti di sinistra al Parlamento europeo. Ma anche le parti sociali – sindacati e associazioni datoriali – svedesi e danesi hanno costantemente sottolineato come la Direttiva potesse minare i modelli nordici di determinazione dei salari e condurre ad un peggioramento della condizione dei lavoratori e delle lavoratrici in entrambi i Paesi.

I modelli svedese e danese di contrattazione collettiva2 si basano infatti sull’accordo diretto tra i sindacati e le associazioni datoriali. Il governo non interferisce nel processo, anche se può stabilire dei limiti attraverso le leggi sul mercato del lavoro. Inoltre, illivello di adesione ai sindacati in Svezia e Danimarca è relativamente alto (circa il 70%) e l’adesione è spesso incoraggiata dagli stessi datori di lavoro. Storicamente, ciò conferisce ai sindacati una posizione di preminenza negli accordi inerenti la contrattazione lavorativa. E’ in questo quadro che si è sviluppato il paradigma che guida la contrattazione in Svezia e in Danimarca: flessibilità per le imprese, sicurezza e protezione per i lavoratori. La cosiddetta la flexicurity3. 

A questo punto, è utile fare una digressione sul “modello nordico” con l’obiettivo di spiegare perché – e come – i sindacati e le associazioni datoriali siano riusciti a sviluppare questo solido modello basato sulla fiducia contrattuale. 

Capire il modello nordico per capire il “no” di Stoccolma e Copenaghen

Il modello adottato in Svezia e Danimarca si è storicamente contraddistinto per la presenza associata di livelli molto elevati di spesa pubblica e di tassazione, un welfare generoso (e dispendioso) e un approccio egualitario nei confronti della distribuzione del reddito. Questo divenne parzialmente inadeguato negli anni Novanta, quando le deboli performance delle economie scandinave degli anni Ottanta – e la successiva crisi economica del 1990 – portarono a significative riforme economiche. Da questo momento il mercato del lavoro in Svezia e Danimarca ha progressivamente sperimentato una maggiore flessibilità della legislazione posta a tutela dell’occupazione – al fine di semplificare i processi di assunzione e licenziamento – mantenendo un generoso sistema di welfare. Appunto, la combinazione tra flexibility e security inflexicurity“. 

Il salario minimo aiuta le donne?

Questo processo, per ragioni che non è possibile approfondire in questa sede, ha inciso differentemente sul mercato del lavoro in Svezia e Danimarca, ma in entrambi i Paesi ha fatto sì che la protezione legislativa dell’occupazione restasse corposa e il lavoro diventasse via via più flessibile solo per alcuni tipi di lavoratore (es. quelli a tempo determinato). Sebbene i due Paesi abbiano apportato alcune modifiche al modello nordico “originale”, sul fronte delle relazioni industriali, questi sono caratterizzati da un’alta densità sindacale (numero di unioni sindacali e iscritti), datori di lavoro organizzati e favorevoli al dialogo, forti istituzioni di contrattazione a livello di settore, un sistema unitario di rappresentanza sindacale e, tutto sommato, una dispersione salariale relativamente bassa.

Queste dinamiche trasformative nel tempo hanno rafforzato i livelli di fiducia nella contrattazione collettiva tra le parti sociali e le associazioni datoriali, preservando la stabilità nella crescita economica. In altre parole, al netto delle evoluzioni strutturali che hanno interessato prezzi, costi e salari (ad esempio, quelli legati alle crisi economiche e all’inflazione), la protezione del lavoratore – e, quindi, la garanzia di un salario adeguato ai costi di vita – e dell’impresa (il costo del lavoro) sono stati garantiti attraverso un forte legame fiduciario tra parti sociali e datoriali. Questo rapporto, a detta di alcuni, avrebbe persino “sgravato” il welfare pubblico. Lo Stato Sociale in entrambi i Paesi non ha infatti dovuto fare i conti con il dilagare di nuove e prepotenti forme di povertà lavorativa come in altri parti d’Europa e la contrattazione collettiva è riuscita a preservare lo status di garanzia della maggior parte dei lavoratori.

I rischi di una doppia regolamentazione

E’ alla luce di quanto sopra esposto che, nella tradizionale visione del dialogo sociale nei Paesi scandinavi, l’introduzione di un requisito giuridicamente vincolante come il salario minimo è percepito come un elemento che andrebbe a distorcere in modo significativo la qualità e l’efficienza del dialogo sociale. In presenza di una soglia imposta dal governo centrale (su indicazioni dell’UE), si ridurrebbero infatti gli incentivi per i lavoratori e i datori di lavoro a perseguire tale dialogo. 

In altre parole, secondo i Governi di Stoccolma e Copenhagen, eventuali leggi sul salario minimo che recepissero quanto previsto dalla Direttiva UE andrebbero a definire una doppia regolamentazione del salario: una concordata collettivamente e l’altra stabilita per legge. Un contesto simile, come spiega bene un articolo di Amandine Crespy su Social Europe, rischierebbe di aumentare le disuguaglianze salariali, distorcendo la concorrenza tra le aziende che applicano salari minimi contrattati collettivamente e quelli previsti dalla legge. Inoltre, ci sarebbe  il rischio che un numero sempre maggiore di aziende decida di non firmare accordi sostitutivi o aderire ad un’associazione datoriale. E lo stesso vale per i lavoratori con l’adesione ai sindacati4.

La Long Term Care in Svezia: “una responsabilità pubblica e collettiva”

Secondo i sindacati svedesi e danesi, inoltre, un intervento statale più pronunciato sul tema dei salari in un modello che sinora si è sostanzialmente autoregolamentato potrebbe infliggere un duro colpo al modello nordico delle relazioni industriali, basato appunto su un’elevata affiliazione alle parti sociali. Indebolendo il ruolo dei sindacati, il rischio è che si contribuisca all’emergere di sindacati “pirata” (che rappresentano gli interessi del datore di lavoro, piuttosto che dei lavoratori, o in generale risultano poco rappresentativi), disposti a firmare accordi collettivi al tasso minimo legale (giocando, come si suol dire, “a ribasso”). Una direttiva dell’UE potrebbe dunque costituire un incentivo a ricorrere a tale pratica. 

A propendere per una visione negativa sul salario minimo adeguato ci sono anche alcuni studi sul tema (Marco Caliendo et al. 2019, Arbetsförmedlingen 2019) secondo cui l’implementazione di una legislazione nazionale in materia non avrebbe degli effetti positivi sul modello nordico. Al contrario, in virtù delle politiche di austerità e del tradizionale non-intervento dello Stato nel mercato del lavoro, ridurre il potere contrattuale delle parti sociali – e, di conseguenza, il loro ruolo nel dialogo sociale – potrebbe peggiorare la situazione salariale, spostando tutto l’onere sul sistema di protezione sociale. Piuttosto che l’introduzione di un salario minimo legale nella normativa nazionale la chiave risolutiva, secondo alcuni esperti (Arbetsförmedlingen 2019), riguarda l’estensione progressiva e più dinamica della contrattazione collettiva anche ad altre professioni (attualmente poco/scarsamente tutelate). Ad esempio, questo potrebbe avvenire con adeguamento salariali per ostetriche, insegnanti di scuola materna, insegnanti di scuola superiore,  psicologi, infermieri e assistenti sociali. 

Italia e Paesi nordici: un confronto

Il dibattito sul salario minimo in Italia, come noto, ha seguito una traiettoria differente rispetto a quella dei Paesi nordici. 

In primo luogo per le differenti posizioni dei sindacati. Come abbiamo ricostruito in questo articolo, la Cisl si è opposta all’introduzione del salario minimo poichè l’indicazione di un compenso minimo per legge può esporre al rischio di “schiacciamento” verso il basso della dinamica retributiva dei salari medi, l’espandersi del lavoro nero e del sommerso e la fuga dell’applicazione dei contratti. Cgil e Uil, invece, si sono mostrati favorevoli all’applicazione di un salario minimo, con la richiesta di approvare una legge sulla rappresentanza che elimini il dumping5 contrattuale.  Se da un lato Cgil e Uil hanno sostenuto prioritariamente un intervento più “statalista” nell’approvazione di un salario minimo per legge, garantendo ad ogni modo la rappresentanza sindacale, dall’altro la Cisl ha difeso il potere di contrattazione dei sindacati.  

Allo stesso tempo, nel nostro Paese i partiti di centro-sinistra hanno sostenuto la proposta di un salario minimo adeguato contrapponendosi ai partiti di destra. Nel caso di Svezia e Danimarca, invece, sia a livello nazionale che europeo, i partiti sono tutti allineati. Le ragioni vanno individuate nella lunga tradizione del citato modello nordico che sinora ha garantito un equilibrio sostenibile tra salari, crescita economica, povertà ed esclusione sociale. 

Lavoro povero in Italia: il report del Forum Disuguaglianze e Diversità

I dati infatti dicono che la percentuale di popolazione a rischio a povertà ed esclusione sociale è pari al 17% in Danimarca e il 18% in Svezia (contro il 24% in Italia). Nonostante la Svezia abbia un tasso di disoccupazione simile a quello italiano (rispettivamente, 7,5 e 8,1; quello danese è 4,5), la povertà lavorativa è pari al 6% in Danimarca e al 6,7% in Svezia, mentre è all’11% in Italia

Intervenire sull’emergenza del rischio di povertà dei lavoratori appare più urgente nel caso italiano rispetto a quello svedese e danese. 

Come già detto in altra sede, in Italia le soluzioni necessarie a intervenire positivamente sul mondo del lavoro non possono e non devono cristallizzarsi sull’introduzione di un salario minimo e dovranno necessariamente guardare anche ad altri ambiti. Ad esempio a un nuovo schema di reddito minimo, a migliori servizi educativi per l’infanzia volti a favorire il lavoro femminile, a un maggiore potere d’acquisto dei salari in contrasto alla crisi inflattiva. Si tratta di temi che, peraltro, sono importanti anche per Svezia e Danimarca, di cui abbiamo lungamente parlato in questo contributo. Anche in questi Paesi, negli ultimi anni, si sono infatti susseguiti segnali di policrisi, ma le condizioni socioeconomiche sono comparativamente migliori al resto dei Paesi europei e, inoltre, la situazione salariale è sostenuta su un assetto istituzionale robusto, in cui il dialogo sociale è un solido pilastro. 

Dunque, cosa possiamo imparare da Svezia e Danimarca?

Come si è potuto notare, nel caso di Svezia e Danimarca, gli interessi in gioco – e i rispettivi equilibri di potere tra l’elettorato, le associazioni di rappresentanza e partiti – sono incardinati in un solido, centenario, sistema di welfare. In questi Paesi, tuttavia, vige un alto grado di organizzazione delle relazioni industriali, attraverso un decentramento coordinato che riesce a tutelare la competitività delle imprese, garantendo al contempo salari tradizionalmente molto alti (i cui minimi si collocano abbondantemente al di sopra del lavoro povero, il 60% del salario mediano). Questa organizzazione consente inoltre di intervenire, periodicamente, per fissare una soglia agli incrementi salariali. Pertanto, i due casi nordici si contraddistinguono dall’Italia per un solido e coeso sistema di relazioni industriali, dove il problema dei bassi salari è residuale e in cui il fenomeno del dumping contrattuale non esiste.

Il salario minimo è la punta dell’iceberg di un tema molto più ampio

E’ altrettanto vero che, se da una parte, anche la letteratura conferma che l’introduzione di un salario minimo legale potrebbe minare all’attuale modello nordico, d’altra parte, la stessa letteratura sottolinea che ci sono delle categorie lavorative (ad esempio, psicologi, infermieri o assistenti sociali)  i cui salari non sono sufficientemente tutelati e  richiederebbero un intervento mirato. Pertanto, in tutti i Paesi europei, il dibattito sul salario minimo apre una finestra di opportunità per riflettere e, eventualmente, agire sull’introduzione di logiche più flessibili (e dinamiche) di indicizzazione dei salari, per far fronte all’inevitabile contesto di policrisi che interessa, e lo farà anche in futuro, tutti i sistemi di welfare e le economie avanzate in Europa e nel resto del mondo.  

In virtù delle similarità che accomunano l’Italia al modello nordico sul fronte della contrattazione collettiva, i modelli svedesi e danesi offrono importanti utili spunti di riflessione per riesaminare alcuni dei pilastri fondativi delle nostre relazioni industriali: ad esempio, agli assetti regolatori del decentramento coordinato, la coesione delle relazioni e la definizione di una soglia salariale “al passo” con l’andamento inflattivo. Tutti spunti che dovranno ri-orientare il dibattito italiano su come cogliere (e non perdere) nuove, ed efficaci, opportunità per combattere l’ormai dilagante povertà lavorativa.

 

 

Per approfondire

Note

  1. A cui si aggiungono Austria, Cipro e Finlandia.
  2. Il compromesso tra il datore di lavoro – o l’associazione datoriale – e il sindacato, allo scopo di stabilire il trattamento minimo garantito e le condizioni di lavoro che dovranno essere rispettate in qualsiasi rapporto di lavoro facente riferimento al medesimo contratto. Ti interessa il tema della contrattazione? Guarda il nostro Focus tematico sulla contrattazione del welfare.
  3. Il modello di flexicurity è stato inizialmente realizzato dalla Danimarca. Il sistema danese viene raffigurato attraverso la combinata flessibilità oraria (impiego poco stringente), sicurezza sociale (generoso sistema di sussidi disoccupazione) e politiche attive del lavoro, finalizzate principalmente alla formazione e al retraining, per rafforzare l’occupabilità, e al sostegno dell’attività di ricerca dell’occupazione.
  4. In comparazione, ad esempio, la Francia ha un salario minimo legale e un’estensione statale dei contratti collettivi – e meno di un lavoratore su dieci è iscritto al sindacato
  5.  Il dumping salariale – o contrattuale (i c.d. contratti pirata) – si fonda sulla incontrollata proliferazione del contratti collettivi nazionale che, in assenza di una legge sulla rappresentanza, richiama quelle pratiche attraverso cui si tenta di una riduzione del costo di lavoro, ricorrendo a forme contrattuali sempre più economiche e permissive.
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