Un esperimento britannico sulla settimana lavorativa da quattro giorni ha generato grande attenzione in tutto il mondo. Anche in Italia.
Ma ora che l’eco mediatico si è spento, ragiona Francesco Seghezzi, “rimane il tema di fondo”. Per il presidente di Fondazione ADAPT, il punto non è tanto la settimana corta in sé, ma “una più generale riduzione dell’orario di lavoro”, che può assumere forme diverse.
Lo studio britannico
A far diventare il tema di stretta attualità sono stati i risultati di uno studio che ha coinvolto 2.900 dipendenti e si è svolto nell’arco di 6 mesi tra giugno e dicembre 2022 su aziende di diverso tipo presenti soprattutto nel Regno Unito.
Come ha spiegato Il Post, si è trattato del “più ampio al mondo finora sull’argomento: come altre ricerche svolte finora, lo studio suggerisce che la riduzione dell’orario di lavoro diminuisca lo stress di chi lavora e non intacchi la produttività delle aziende, in alcuni casi aumentandola. La maggior parte delle aziende coinvolte, 61 in tutto, ha deciso di non tornare alla settimana lavorativa di cinque giorni”.
“Alcuni dei benefici più ampi della riduzione dell’orario di lavoro – si legge nell’executive summary dello studio – sono stati riscontrati nel benessere dei dipendenti. I dati ‘prima e dopo’ mostrano che il 39% dei dipendenti era meno stressato e il 71% aveva ridotto i livelli di burnout alla fine dello studio”. Inoltre, per il 54% dei dipendenti è stato più facile conciliare il lavoro con le mansioni domestiche mentre per il 15% dei dipendenti “nessuna somma di denaro li avrebbe indotti ad accettare un orario di cinque giorni rispetto alla settimana di quattro giorni a cui erano abituati”.
Lo studio, che è arrivato dopo altri esperimenti simili svolti in diversi paesi, dal Belgio alla Spagna, dalla Nuova Zelanda al Giappone, è stato commentato, generalmente, con toni positivi, a volte entusiasti. Ne vanno però sottolineati alcuni aspetti.
Il primo è che l’iniziativa ha coinvolto gruppi di ricerca di diverse università autorevoli, in Europa e negli Usa, ma è stata anche promossa dall’organizzazione non profit 4 Day Week Global il cui obiettivo è espressamente “rendere la settimana di 4 giorni globale”. Il secondo è che, per quanto si tratti del più importante studio in questo ambito, stiamo sempre parlando di un contesto, di un campione e di un durata, tutto sommato, limitati e quindi i risultati vanno presi ancora con una certa cautela.
Il dibattito italiano
Nonostante questo, lo studio promosso da 4 Day Week Global ha generato molte reazioni, anche nel nostro Paese. Per esempio, il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ha ribadito la propria opinione favorevole già espressa in passato, mentre il ministro Adolfo Urso si è detto “disposto a riflettere” sull’ipotesi “partendo dalla realtà”.
L’iniziativa è stata commentata favorevolmente, soprattutto da parte dei sindacati. Uno dei primi rappresentanti dei lavoratori a farlo è stato Roberto Benaglia, segretario generale della Fim-Cisl, che riunisce i metalmeccanici. “I segnali da Spagna e Inghilterra non possono vederci spettatori”, ha spiegato ai microfoni di Radio 3. “È tempo di concentrare le forze di imprese e sindacati per rendere moderno il sistema di organizzazione del lavoro” facendo in modo che sia “competitivo, ma anche sostenibile per i lavoratori”, ha continuato.
Settimana corta di quattro giorni, le prime sperimentazioni in Italia
Secondo Benaglia, “si lavora sempre più per risultati, con compiti e obiettivi”. “Anche in fabbrica – ha proseguito – non si tratta più solo di timbrare il cartellino. L’organizzazione del lavoro sta cambiando: è sempre più partecipativa e rende sempre più sostenibile e competitivo il lavoro. Ridurre gli orari è un costo, ma se il lavoratore è contento possiamo creare un sistema vantaggioso”.
Anche dalla Cgil sono arrivate aperture, a cominciare dal segretario generale Maurizio Landini che ha commentato subito il caso britannico in un’intervista sulla Stampa ed è poi tornato sull’argomento nel corso del congresso nazionale della sua sigla a metà marzo.
“La settimana lavorativa di quattro giorni, come sta avvenendo in altri Paesi con esiti positivi per i lavoratori e per le imprese, è diventata emblematica nel dibattito pubblico di questo cambiamento in corso, ma senza una strategia collettiva resta esempio isolato di buona contrattazione o scelta in mano alle aziende, magari con elementi di discriminazione”, ha dichiarato il segretario dal palco di Rimini.
Il ruolo dei sindacati
Seghezzi non è sorpreso di questo protagonismo dei sindacati. “Hanno fatto bene ad agganciarsi al dibattito in corso”, dice. “Detto questo – prosegue – pur nella loro diversità, Cgil e Fim Cisl non avevano certo bisogno del caso britannico per sollevare il tema della riduzione dell’orario di lavoro”, commenta.
Il presidente di Fondazione ADAPT non trova bizzarro nemmeno che siano i metalmeccanici a cavalcare la questione della settimana corta che, per certi versi, potrebbe sembrare affine a quella del lavoro agile o da remoto. “Nelle industrie metalmeccaniche, la produttività è un concetto molto più palpabile che nei servizi o nei lavori della conoscenza”, sostiene. Per fare un esempio, è semplice capire quante auto si producono in un determinato tempo e quante in più se ne possono produrre acquistando macchinari più veloci o tecnologicamente più avanzati.
Settimana lavorativa di 4 giorni in Italia: la Cisl chiede di provarla
Quella della produttività è una questione cruciale nel dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro.
Per Seghezzi, i due concetti si sono mossi “parallelamente nella storia sindacale”. La produttività aumenta e l’orario si riduce. E dovrebbe essere così anche questa volta. Come ben spiegato su Linkiesta, infatti, di proposte relative alla settimana corta ne stanno emergendo numerose e diverse, ma non bisogna “dimenticare che la riduzione dell’orario di lavoro deve avvenire a parità di salario, senza correre il rischio di un abbassamento degli stipendi”.
Le criticità
Quello dei salari inferiori è solo uno dei potenziali rischi connessi al dibattito sulla settimana corta. Vi sono anche altre criticità che potrebbero emergere, a seconda delle modalità con cui si sceglie di accorciare la settimana. Per esempio, se il monte ore settimanale rimane invariato e quindi le ore vengono spalmate su giornate lavorative più lunghe non è detto che la produttività migliori.
In un Paese come l’Italia, infatti, la difficoltà di conciliazione vita-lavoro rischia di frenare il cambiamento.
Il lavoro informale di cura, infatti, è ancora molto sbilanciato a sfavore delle donne (ma anche dei giovani, come spieghiamo qui) e, come abbiamo già scritto, se questo elemento non viene tenuto in considerazione, “con la riduzione della settimana lavorativa il rischio è di peggiorare questa situazione”. Ancor di più “se i servizi complementari – come l’asilo nido o i centri diurni – non aumentano anche loro le ore di servizio offerto per l’assistenza dei più piccoli o dei più anziani”.
Il ricercatore di Secondo Welfare Valentino Santoni aggiunge una riflessione utile ad ampliare ulteriormente il discorso: “c’è anche il rischio che la settimana corta aumenti le disuguaglianze tra lavoratori di settori diversi, con produttività diverse e possibilità diverse di farla crescere. Anche perché in alcuni contesti è anche complesso stimare in maniera chiara e precisa la produttività e il suo aumento”.
Anche per Seghezzi quella sulla disuguaglianza destinata a crescere è un’ipotesi “molto probabile”. “Si potrebbero replicare le disuguaglianze nate con lo smart working – prosegue -, ma credo sia inevitabile partire da un numero di realtà limitate per poi provare a generalizzare la pratica rendendola un diritto per tutti”. Il punto è come farlo.
I prossimi passi
Una via l’ha indicata Landini. Al congresso della CGIL, il segretario ha detto che “la riduzione dell’orario, e della possibile conseguente riduzione delle giornate lavorative settimanali, va posta nei contratti nazionali”. A suo parere, ne va rivendicata “la progressiva generalizzazione, collegata all’innovazione in corso e con l’obiettivo di indicare secondo le specificità delle diverse categorie le modalità di messa in pratica, dando così anche strumenti alla contrattazione di secondo livello”, ha aggiunto.
Benaglia e la Fim Cisl, invece, puntano a lanciare delle “sperimentazioni” in aziende selezionate. “Ne vediamo molte interessate e questo è un segnale positivo”, ha spiegato Benaglia, sempre a Radio3. Per il segretario della Fim vanno scelti alcuni “stabilimenti di grandi gruppi su cui concentrarsi”, mettendo alla prova “schemi di orario flessibile e ridotto”.
Seghezzi è sostanzialmente d’accordo. “Per non morire, questo dibattito sulla riduzione dell’orario deve declinarsi a livello aziendale, di contrattazione aziendale”, dice. “Le esigenze e le modalità di organizzare il lavoro sono diverse da azienda ad azienda: bisogna trovare le modalità giuste per ciascun contesto”, argomenta.
A suo parere, un provvedimento che riduca l’orario per legge per tutti è impensabile: “non porta da nessuna parte”. Anche perché, a differenza di altri Paesi europei in cui ci sono state le sperimentazioni sulla settimana corta, “in Italia la produttività cresce poco – ed è proprio questa la leva da utilizzare per ridurre l’orario a parità di salario”. Per Seghezzi, quindi, le sperimentazioni dovrebbero iniziare dove la produttività lo consente, e il settore auto potrebbe essere proprio uno di questi. Benaglia, ovviamente, ci spera: “è una grande rivoluzione che può essere immaginata nel nostro Paese”.