Quando ha iniziato il suo intervento, Alessandro Sancino si è detto “emozionato”. L’evento a cui stava partecipando, era l’incontro “Prospettive europee sull’innovazione sociale”, organizzato dal Joint Research Centre della Commissione Ue nell’ambito del Social Innovation Campus di Fondazione Triulza.
“È una delle prime volte che parlo a un incontro pubblico da quando sono rientrato in Italia”, ha spiegato Sancino, che oggi è docente del Dipartimento di Scienze Economico Aziendali e Diritto per l’Economia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Il professore è arrivato all’ateneo milanese nel 2020 dopo un’esperienza di sette anni nel Regno Unito, dove continua a insegnare, all’Open University. Il professore, considerato uno degli esperti più riconosciuti a livello internazionale nell’ambito degli studi di management pubblico, nel maggio 2021 è stato nominato nel nucleo Tecnico per il Coordinamento della Politica Economica del Governo Italiano presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’incontro cui Sancino ha partecipato ha riflettuto su quali siano le caratteristiche dell’innovazione sociale, i motivi che ci spingono a guardare ad essa con interesse e le condizioni che la potrebbero far diventare una risposta alle trasformazioni che stiamo vivendo. In questa intervista, l’accademico della Bicocca approfondisce per Secondo Welfare alcuni dei punti toccati nel suo intervento, fa delle proposte ed entra – parole sue – “in punta di piedi” nel dibattito in corso nel nostro Paese su questo importante tema.
Professor Sancino, che relazione positiva può instaurarsi tra pubblica amministrazione e innovazione sociale?
Secondo me l’innovazione sociale non va pensata al di fuori dello Stato, come un correttivo alle sue mancanze. Fare innovazione sociale, a mio parere, significa dare un fine democratico all’economia, darle un purpose. In Italia, la pubblica amministrazione intermedia poco meno della metà del PIL, il 48,5 per cento e cede al mercato 170 miliardi di euro l’anno in cambio di servizi (OECD 2021, Dati: 2019). Tutti questi miliardi possono essere spesi partendo da logiche di innovazione sociale?
Faccio un esempio concreto. Nel milanese, una Onlus ha aperto una pizzeria gestita da ragazzi autistici, si chiama PizzAut. È un’iniziativa estremamente positiva. Perché non replicarla nella pubblica amministrazione per una serie di compiti che possono essere svolti da persone autistiche o con altre fragilità? Perché lo Stato non può essere un innovatore sociale?
Con questo non voglio dire che l’innovazione sociale vada statalizzata, ma che lo Stato può avere un ruolo nel facilitare e scalare esperienze di innovazione sociale, con una funzione trasformativa.
Di che tipo di trasformazione stiamo parlando?
La trasformazione verso una nuova economia post-capitalista, nella quale già siamo entrati. E non sono io a dirlo, ma Larry Fink di BlackRock1: per accrescere il capitale serve un miglioramento delle condizioni sociali, economiche e ambientali. In questo contesto, l’innovazione sociale rischia di diventare o un’opportunità di business o una serie di piccole soluzioni che alleviano i fallimenti di Stato e mercato. Invece io credo abbia una funzione democratica.
Il suo obiettivo finale è soddisfare i bisogni delle persone. Se metti questo al centro dell’economia, la trasformi. Superi il ragionare per silos – Pubblico, privato e Terzo Settore -, ma chiami tutti gli attori a confrontarsi a partire proprio dai bisogni. È un percorso non facile, graduale, ma che può portare le comunità a recuperare potere.
E per generare dinamiche di questo tipo, da dove si comincia?
Si parte sicuramente dal territorio, che è il luogo dove ricomporre le fratture della nostra società. Nelle nostre piazze ci sono il municipio, la banca, dei negozi e, magari, la sede di qualche associazione: sono tutti attori di una comunità in relazione tra loro. Sembrano isole, ma non lo sono e, spesso, il loro valore viene percepito una volta che non ci sono più.
Penso ai pub di alcuni villaggi in Inghilterra, dove ho vissuto. Quando chiudono, lasciano la comunità perse, senza punti di riferimento. Solo abitando questi luoghi e mettendo al centro i bisogni delle persone che vi abitano, si può fare innovazione sociale. E quando parlo di “luoghi” mi riferisco a scale piccole, come quella di un quartiere o di un piccolo comune, dove si fa davvero esperienza di cittadinanza.
Con il PNRR, però, proprio i Comuni rischiano di avere le maggior difficoltà. Che fare?
Per evitare che i Comuni soffrano bisogna far dialogare lo Stato centrale con dei distretti socio-economico-territoriali. Con questo termine mi immagino delle aggregazioni di comuni che si mettono insieme, dal basso, collaborando per creare uno sviluppo che sia davvero inclusivo dal punto di vista sociale. Con i suoi 8.000 Comuni circa, l’Italia è molto frammentata: queste reti consentirebbero alle amministrazioni locali di interagire con quella centrale e quindi di lavorare meglio sui bandi e sui progetti del PNRR.
Lo Stato centrale dovrebbe stabilire dei criteri per questi distretti: penso a una quota di abitanti, tra i 50.000 e gli 80.000, o a un numero massimo di comuni, in aree meno popolate come quelle montane, intorno ai dieci o dodici. Si tratta di semplificare, ma non con l’accetta, eccedendo. E non penso che sia tardi. Il PNRR, per usare una metafora ciclistica, è una lunga tappa piena di gran premi della montagna, non uno sprint per velocisti. C’è tempo fino al 2026.