Tempi moderni. Il welfare nelle aziende in Italia – a cura di Emmanuele Pavolini, Ugo Ascoli e Maria Luisa Mirabile – è il primo volume interamente dedicato allo sviluppo del welfare aziendale in Italia. Si tratta di un lavoro completo, che ripercorre la letteratura accademica, la storia del welfare state e lo sviluppo degli schemi di tipo occupazionale per ricostruire la genesi del fenomeno del welfare aziendale e individuarne prospettive e criticità.
Partendo dalla celebre definizione di fiscal, social e occupational welfare elaborata da Titmuss negli anni Cinquanta, gli autori forniscono una descrizione di welfare “aziendale” e “contrattuale” attraverso l’individuazione di punti di contatto e differenze con fenomeni come il welfare categoriale, il welfare locale e il secondo welfare. Pur sottolineando il frequente intersecarsi e sovrapporsi dei due, gli autori definiscono il welfare contrattuale come quello di natura occupazionale che genera dalla contrattazione fra le parti sociali a livello nazionale, mentre il welfare aziendale fa riferimento agli schemi a livello aziendale, già diffusi in alcune aziende nel secolo scorso sotto forma di pratiche unilateralmente istituite dagli imprenditori.
I capitoli affrontano tutte le questioni più rilevanti all’interno del dibattito accademico e non sul welfare aziendale: il ruolo del bilateralismo nel capitolo 1, lo sviluppo delle pensioni categoriali nel 2 e i fondi sanitari nel 3. Con il capitolo 4 inizia invece l’analisi empirica, svolta attraverso indagini quantitative e studi di caso (capitolo 5).
Pur riconoscendo la generale mancanza di dati specifici sul welfare aziendale, nel quarto capitolo Pavolini e Carrera presentano una vera e propria rassegna – arricchita con elaborazioni svolte dagli autori – di tutti i database che a livello europeo e nazionale aiutano a ricostruire le dimensioni e l’evoluzione nel tempo del fenomeno. Nonostante permanga il divario con i maggiori paesi europei in fatto di welfare aziendale e opportunità di conciliazione famiglia-lavoro, a partire dal 2005 anche il nostro Paese ha visto la crescita del sostegno ai lavoratori da parte delle aziende attraverso la maggiore disponibilità a concedere orari flessibili per motivi familiari.
Ci sono poi differenze dovute alla dimensione delle imprese, ai settori produttivi e al contratto di lavoro. Le lavoratrici con contratto a tempo indeterminato – mostrano Pavolini e Carrera – hanno più accesso a programmi di conciliazione, e le micro-imprese fino a 10 dipendenti e le grandi con più di 250 favoriscono la conciliazione più delle altre; manifattura, pubblica amministrazione, sanità e scuola sono i settori in cui è più difficile conciliare, mentre gli strumenti di conciliazione sono più diffusi nel resto del terziario. Gioca inoltre un ruolo importante la variabile geografica: il welfare in azienda è più sviluppato nel Centro-Nord del Paese, e molto meno nel Lazio e nel Mezzogiorno. Per quanto riguarda il tipo di interventi, i più diffusi sono di carattere sanitario, nell’ambito di istruzione e formazione e per la flessibilità oraria, mentre sono di gran lunga meno presenti progetti in campo abitativo, socio-educativo per l’infanzia e – poco più diffuse – iniziative per l’accesso a prestiti agevolati.
Il caso italiano, ancora caratterizzato dalla “doppia debolezza” sia del welfare pubblico che di quello derivante da iniziativa aziendale, mostra però un forte dinamismo nell’ultimo decennio. Il welfare occupazionale coinvolge un numero sempre crescente di lavoratori, predisponendo misure la cui generosità e copertura sono – sebbene ancora estremamente eterogenee – sempre più consistenti. Non si può tuttavia ignorare l’effetto di “segmentazione dei diritti sociali”: la maggior parte delle prestazioni non copre i lavoratori a tempo determinato, e generalmente l’accesso alle prestazioni – spesso esteso anche alla famiglia del dipendente – si perde con l’uscita dall’azienda, per licenziamento o pensionamento. In aggiunta alle già citate differenziazioni in base a status occupazionale, settore di appartenenza e collocazione geografica dell’azienda, il rischio del welfare aziendale è quello di riprodurre e addirittura esacerbare il noto dualismo italiano tra insider e outsider rispetto al mercato del lavoro. Certo ci sono anche le potenzialità del welfare aziendale: nuove forme di welfare da co-finanziamento pubblico-privato “in aiuto” al primo welfare, migliore processo di “socializzazione del rischio”, e parziale spostamento della spesa out of pocket delle famiglie sulle aziende “ricompensate” in termini di produttività aziendale.
Il capitolo 4 si conclude con un’analisi delle principali variabili che influenzano la diffusione del welfare in azienda: l’anno di fondazione sembra essere significativo rispetto al numero di prestazioni presenti, come per un effetto di “stratificazione” delle misure, mentre l’appartenenza a un gruppo aziendale, l’alto livello di qualificazione dei lavoratori, la presenza di molte donne nell’organico, il settore economico di appartenenza e il coinvolgimento sindacale sono positivamente correlate con lo sviluppo di interventi di welfare. “Il sindacato – concludono gli autori – riesce a promuovere, plasmare ed influenzare le modalità di introduzione di modalità di forme di welfare in azienda, dentro, però, un quadro che vede spesso le imprese quali attori che intendono sempre più tale insieme di prestazioni quale strumento rilevante di gestione delle risorse umane e di moderazione salariale”.
Nel quinto capitolo Pavolini, Colombo e Neri affrontano dieci casi studio – Conserve Italia, Luxottica, Angelini, Abb, Camst, Banca Intesa Sanpaolo, Ebam, Consorzio Nido Valle Esina, ATM, Aeroporti di Puglia – suddivisi in tre diversi profili aziendali: le grandi aziende “accentrate” in cui la produzione avviene in un ristretto numero di grandi realtà produttive, quelle “frammentate” in cui si produce in più sedi di piccole dimensioni, e le PMI. La scelta degli autori di considerare anche le piccole e medie imprese deriva non solo dalla conoscenza del tessuto produttivo italiano, ma anche dalla volontà di indagare e dare risalto alla diffusione di forme di welfare territoriale e “inter-aziendale”. Le prestazioni di welfare aziendale assumono crescente rilevanza in termini di spesa dell’azienda e di copertura dei rischi coinvolgendo un’ampia platea di attori, da azienda e sindacato fino ai rappresentanti del “primo welfare”. Un welfare “privato” che chiama in causa le relazioni industriali e si intreccia con il welfare pubblico, specialmente a livello locale. E al tempo stesso inizia a essere visto come efficace strategia aziendale, spesso in un’ottica di trade-off. All’interno dei casi, Pavolini Colombo e Neri evidenziano le differenze non solo in termini di offerta ma anche di obiettivi, coinvolgimento dei diversi attori e modalità di governance del sistema.
Infine, una domanda cruciale: politics matters? Quanto incidono le scelte dei governi sullo sviluppo di forme di welfare alternative? Sebbene lo Stato non intervenga con investimenti diretti ma generalmente attraverso la leva fiscale, dagli anni Novanta la riforma delle pensioni, quella sanitaria e la normativa sugli enti bilaterali sembrano puntare al rafforzamento degli strumenti di welfare generati dalla contrattazione. Un direzione seguita nel corso degli anni dalle amministrazioni regionali e locali. Dinamiche che, secondo gli autori, limitano la capacità esplicativa di teorie più tradizionali delle scelte politiche basate sul “colore” del governo e sull’influenza dei sindacati per favorire invece spiegazioni riconducibili a tematiche specifiche e alle aree di policy in cui le amministrazioni scelgono di intervenire.
Riferimenti
Emmanuele Pavolini, Ugo Ascoli e Maria Luisa Mirabile, Tempi moderni. Il welfare nelle aziende in Italia, Il Mulino 2013.