Un’occupazione per poco meno di otto adulti su dieci in età da lavoro. La dimensione sociale dell’Unione Europea passa innanzitutto da qui. O, almeno, così hanno deciso i leader dei 27 Paesi UE, firmando la dichiarazione di Porto – di cui abbiamo parlato nella prima puntata di #EuropaSociale, e dando il loro sostegno al Piano d’azione sul pilastro europeo dei diritti sociali. Al suo interno, il primo traguardo al 2030 riguarda proprio l’occupazione: entro quella data almeno il 78% della popolazione tra i 20 e i 64 anni dovrà avere un lavoro.
“Questo obiettivo si inserisce nell’ambito di una ripresa post Covid-19 che deve essere capace di creare occupazione. È un’idea su cui c’è un consenso diffuso”, sostiene Silvia Rainone, ricercatrice dello European Trade Union Institute – ETUI. “È una sfida ambiziosa che richiede un investimento economico e politico conseguente”.
Già con la strategia Europa 2020, l’Ue si era impegnata in questo ambito, ma senza raggiungere quanto si era proposta: a fronte di un obiettivo del 75% di occupati, nel 2019 ha superato quota 73, salvo poi scendere al 72 nel 2020 a causa della pandemia. Ora i 27 hanno deciso di riprovarci in un contesto completamente diverso da quello di un decennio fa. Perché a fare la differenza potrebbero essere le risorse comunitarie, soprattutto quelle di Next Generation EU.
Next Generation Eu
“L’Ue fornisce importanti fondi per sostenere l’occupazione, l’istruzione, la formazione, e le politiche sociali negli Stati membri”, spiega Joost Korte, direttore della DG Occupazione, affari sociali e inclusione della Commissione UE. Korte si riferisce ai fondi del budget ordinario europeo 2021-2027 (come il Fondo sociale europeo plus o il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione), ma anche a quelli di Next Generation Eu, il programma straordinario da oltre 800 miliardi di euro lanciato per combattere le conseguenze della pandemia. “Anche quelli – aggiunge Korte – sono fondi specificamente mirati a realizzare i principi del Pilastro europeo dei diritti sociali”.
L’Italia avrà a disposizione più di 200 miliardi e i nuovi posti di lavoro dovrebbero arrivare innanzitutto dagli ingenti investimenti per la transizione verde e digitale. Certo, i cambiamenti legati ad ambiente e tecnologia potrebbero anche cancellarne parecchi di posti: quelli nei settori che danneggiano il pianeta o quelli che possono essere sostituiti con l’automazione. Ma il Governo stima che, grazie al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) l’occupazione dovrebbe crescere del 3,2% tra il 2024 e il 2026. E una dinamica simile è attesa anche negli altri stati Ue.
Maxime Cerutti lo auspica perché, a suo giudizio, “aumentare la partecipazione al mercato del lavoro è la soluzione per dare protezione sociale a tutti”. Direttore per gli affari sociali di Businesseurope, la Confederazione europea delle imprese della quale fa parte anche Confindustria, Cerutti sostiene che “per raggiungere entro il 2030 l’obiettivo fissato a Porto bisogna lavorare anche sul lato della domanda”. “Anche a causa della pandemia, gli inattivi (persone che non hanno un’occupazione né la cercano – ndr) sono molti. Per diversi stati UE, integrare queste persone nel mercato del lavoro è una sfida strutturale. Dobbiamo migliorare la nostra capacità di raggiungere le persone inattive che sono in grado di lavorare”. E per farlo è importante capire chi sono queste persone.
Divario di genere
Una risposta sull’identità di chi oggi non partecipa al mercato del lavoro possiamo provare a darla guardando diversi indicatori. Anche se i dati cambiano da Paese a Paese e negli ultimi anni sono migliorati, tra gli inattivi ci sono sicuramente molte donne. “Sebbene nel 2019 il tasso di occupazione femminile sia stato più alto che mai, l’UE sta ancora cercando di colmare i divari di genere e di rimuovere le barriere che impediscono alle donne di entrare e rimanere nel mercato del lavoro”, conferma Martina Bisello, ricercatrice di Eurofound, agenzia UE che fa ricerca su su condizioni di vita e di lavoro sostenibili. Proprio per questo, il Piano d’azione sul pilastro europeo dei diritti sociali propone di dimezzare il divario occupazionale di genere entro il 2030, rispetto al 2019. E anche in questo caso si tratta di un obiettivo non facile, soprattutto per due ordini di motivi.
Il primo è che molte donne inattive non hanno un lavoro perché sono assorbiti da oneri familiari. Nel 2019, circa l’8% delle donne europee in età da lavoro ha dichiarato di non cercare un’occupazione per responsabilità di cura verso adulti con disabilità o bambini, e per altri motivi familiari o personali. Al contrario, questo non è quasi mai il caso degli uomini (0,7%). Il problema è ancora più acuto nei Paesi del Sud dell’Europa, tra cui l’Italia, dove il dato tocca il 14,5 %. Il secondo motivo è legato alla pandemia. Mentre la precedente recessione economica ha inferto il colpo più duro ai settori dominati dagli uomini e più sensibili al ciclo economico, come l’edilizia e il manifatturiero, l’attuale crisi ha colpito principalmente i servizi con un forte contatto sociale, molti dei quali impiegano più donne rispetto agli uomini. Tra cui peraltro c’è anche una differenza retributiva media sl. .
Per uscirne, secondo Bisello, “da un lato, va promossa la partecipazione delle donne in settori dominati dagli uomini, ma anche quella degli uomini in aree dominate dalle donne. Anche perché recenti studi indicano che le occupazioni equilibrate in termini di genere tendono ad avere livelli elevati non solo di qualità del lavoro ma anche di parità di genere nelle condizioni di lavoro”. “Dall’altro – aggiunge – c’è bisogno di maggiori infrastrutture sociali, come asili nido e servizi di cura per gli anziani, non solo di alta qualità ma anche a prezzi accessibili”. I fondi straordinari UE, usati per i piani di ripresa nazionali, dovrebbero servire proprio a questo e potrebbero permettere di intercettare soprattutto le donne.
Nel PNRR italiano, per esempio, la parità di genere è indicata come una delle tre priorità trasversali a tutte le azioni previste, con una stima di crescita dell’occupazione femminile del 4% in totale e del 5,5% nelle regioni del Mezzogiorno, sempre tra 2024 e 2026. Un’altra delle priorità è proprio “colmare il divario di cittadinanza valorizzando il potenziale del Sud”. La terza sono i giovani, anch’essi molto rappresentati tra chi rimane escluso dal mercato del lavoro.
Giovani e Neet
La questione giovani non riguarda solo l’Italia, anche se nel nostro Paese si manifesta con particolare durezza. L’Italia ha il dato peggiore d’Europa per i NEET (acronimo di Neither in Employment or in Education or Training), cioè i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non si formano: 23%, contro una media continentale di circa dieci punti più bassa. Anche la disoccupazione giovanile è molto più alta: sfiora il 30% a fronte di una media Ue del 17% nella fascia 16-24 anni. Peggio in questo campo fanno solo Spagna e Grecia. “Il tema dei giovani è essenziale”, afferma Massimiliano Mascherini, capo dell’unità Politiche sociali di Eurofound. “Bisogna facilitare il loro l’ingresso nel mercato del lavoro e assicurarsi che facciano una transizione verso l’età adulta più efficace e positiva possibile”, aggiunge.
Come le donne, anche i giovani sono stati molto colpiti dalle conseguenze socioeconomiche della pandemia. Senza contare che anche la recessione precedente li aveva duramente penalizzati. E infatti uno degli strumenti che dovrebbe aiutarli è stato introdotto proprio in seguito alla crisi del debito sovrano europeo. È Garanzia Giovani, avviata nel 2013 e finanziata con quasi 9 miliardi di euro. “È stata una novità in molti Paesi: ha richiesto la canalizzazione di risorse nazionali e locali, che sono state integrate da fondi UE. Dal suo inizio, più di 31 milioni di giovani hanno accettato un’offerta di lavoro, istruzione continua, apprendistato e tirocinio” grazie alla Garanzia, spiega Korte. Le valutazioni sull’efficacia dell’iniziativa sono contrastanti. In Italia, per esempio, ha faticato a raggiungere le fasce più deboli e ha offerto molti tirocini e stage, troppo spesso senza reali sbocchi occupazionali.
Ora, però, è stata rilanciata con un ambito di intervento più ampio e una dotazione economica stimata di 22 miliardi che potrebbe ulteriormente crescere. Gli Stati, come il nostro, che hanno un numero di NEET superiore alla media UE, dovranno dedicare a questa misura almeno il 12,5% dei contributi che spettano loro tramite il Fondo Sociale Europeo Plus. Per Mascherini, “è il momento di costruire dove si è già investito. Implementare Garanzia Giovani ha richiesto un grande sforzo, soprattutto in Italia. È stata una sfida enorme, il cui impatto ora va massimizzato grazie alle nuove risorse”.
Quale occupazione?
A prescindere dal fatto che il lavoro creato dalla ripresa venga poi svolto da donne o da uomini, da giovani o da meno giovani, c’è un aspetto importante che va tenuto in considerazione: la qualità. L’obiettivo europeo del 78% di occupati è quantitativo ma, secondo Rainone, è importante chiedersi anche “che tipo di occupazione vogliamo”. “Bisogna fare attenzione – prosegue – a come viene distribuita la ricchezza creata dai nuovi posti di lavoro, ma questa preoccupazione, al momento, non la vedo né nella Commissione UE né negli Stati membri”.
Eppure, secondo gli ultimi dati disponibili (2016), nell’Unione Europea il 10% dei lavoratori è a rischio povertà. Ciò significa che ci sono milioni di cittadini che, pur avendo un lavoro, hanno uno stipendio tanto basso da poter essere considerati poveri: working poor, appunto. Per questo, anche secondo Mascherini, la qualità dell’occupazione è fondamentale: “La direzione da prendere è quella di posti di lavoro dignitosi, che consentano ai cittadini di disegnare la propria vita, con diritti pieni e la possibilità di pianificare il futuro”.
Il ricercatore ricorda che ad oggi, per conteggiare come occupata una persona, basta che questa abbia lavorato almeno un’ora nella settimana di riferimento. Perché ci sia da festeggiare qualora il traguardo fissato per il 2030 venisse davvero tagliato, bisogna tenere conto anche di questi fattori. I dati, quindi, vanno letti con attenzione. “Il Piano d’azione sul pilastro europeo dei diritti sociali – conclude Marchesini – dà alcune indicazioni sul lavoro di qualità, ma per le istituzioni UE è difficile entrare così nei dettagli. Creare buona occupazione è un compito spetta in larga parte agli Stati”.
#EuropaSociale
Questo approfondimento è parte del ciclo curato da Paolo Riva per Secondo Welfare. Il suo obiettivo è comprendere se e quanto il summit di Porto, che ha rimesso al centro del dibattito continentale il Pilastro europeo dei diritti sociali, sarà importante per definire il futuro dell’Unione Europea. Qui puoi leggere la prima puntata.