Aiutare chi è più colpito dalla crisi dovrebbe essere compito anche degli imprenditori. Diverse imprese italiane (come Vodafone, Unicredit, Eni e molte altre) fanno da tempo (e bene) filantropia: secondo alcune stime l’insieme delle loro donazioni supera i duecento milioni annui. Altre aziende hanno avviato programmi di sostegno ai lavoratori con premi (l’ultimo in ordine di tempo è quello notevole della Ferrari). O, come per la Luxottica, sono stati avviati programmi di affiancamento al welfare pubblico. Ma vi è sicuramente spazio per sforzi aggiuntivi, in particolare da parte dei «grandi». Le statistiche internazionali indicano infatti che in altri paesi il mondo imprenditoriale fa di più.
Diego Della Valle ha esortato le aziende a destinare (su base volontaria) l’1% dei profitti per sostenere i bisogni sociali dei propri territori e inizierà la Tod’s mettendo sul tavolo circa un milione e mezzo di euro. La regola dell’1% vale già in Canada, Australia e Nuova Zelanda. Il corporate giving (ossia le donazioni filantropiche aziendali) è una pratica consolidata, valorizzata anche simbolicamente sui siti delle imprese e dalle loro associazioni.
Ma per essere davvero efficaci, gli aiuti delle imprese non debbono essere beneficenza occasionale. Ci vuole una strategia che (fatti salvi i casi di emergenza) aiuti i destinatari a recuperare autonomia, capacità di reddito e di lavoro, magari orientando le erogazioni verso consumi «meritevoli» (istruzione, salute, formazione). La stessa cosa vale per le erogazioni ad enti pubblici o associazioni del territorio. Nel mondo anglosassone il corporate giving non è solo denaro speso in sussidi o servizi diretti. È anche consulenza gratuita e dedicata da parte di manager delle aziende, compresi gli amministratori delegati. Le persone economicamente più vulnerabili sono prive di contatti, informazioni, competenze: non «sanno più come fare» per risolvere i problemi quotidiani.
A loro volta, le amministrazioni locali mancano non solo di risorse finanziarie, ma anche di know-how progettuale e gestionale. I tesori di competenze delle nostre imprese possono essere mobilitati per consigliare, stimolare, dare idee, fare sistema. Questo tipo di aiuto può peraltro essere fornito dagli imprenditori anche quando non possono permettersi di donare (tanti) soldi. Dotarsi di una strategia filantropica aziendale significa poi impegnarsi nel monitoraggio e nella valutazione di ciò che si fa. Cosa funziona e cosa non funziona? Nel nostro sistema-Paese si tende a sottovalutare molto i momenti successivi alla decisione, a lasciare che le cose seguano il loro corso (il che a volte significa, purtroppo, nessun corso o un corso inefficace).
Di nuovo, le imprese sanno come monitorare e valutare le proprie attività commerciali: non devono dimenticarsene quando s’impegnano nel sociale, soprattutto se non l’hanno mai fatto prima. Peraltro ci sono in Italia già molte buone esperienze concrete da valorizzare ed imitare (come la Fondazione Sodalitas a Milano). Infine, ci vogliono coordinamento e «massa critica». La proposta dell’1% avrà successo se non rimarrà un’iniziativa isolata ed estemporanea, ma darà vita ad un processo, ad un effetto domino. Negli Stati Uniti una delle esperienze più note e rilevanti su questo fronte è stata l’istituzione, quindici anni fa, del Committee for Encouraging Corporate Philanthropy (comitato per incentivare la filantropia aziendale), su iniziativa di Paul Newman (l’attore), David Rockefeller e altri grandi imprenditori.
Oggi le imprese partecipanti sono più di duecento (almeno metà incluse nella classifica Top 500 di Fortune ). Nel 2011 l’investimento mediano è stato di 24 milioni, per un totale di 16 miliardi di dollari. Sul sito CECP si trovano esempi molto innovativi (è inclusa anche l’iniziativa Dynamo per bambini disabili, sostenuta dall’italiana KME), e soprattutto si descrive il metodo che rende l’impegno sociale delle aziende uno strumento per fare davvero la differenza. In un momento di crisi dura come questa ogni segnale di movimento è benvenuto. Fare passi rapidi sul sentiero della filantropia aziendale sarebbe senz’altro un buon segnale. Purché si lancino progetti seri e concreti, e non solo sterili ballon d’essai.
Questo articolo di Maruzio Ferrera è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera, p.42, 12 aprile 2013
Riferimenti:
Fondazione One Sight di Luxottica
Committee for Encouraging Corporate Philanthropy