La "questione giovanile" è una sfida sociale che ha del paradossale. Da una parte è ormai logorata da una retorica, politica e organizzativa soprattutto, alla quale seguono pochi fatti. D’altro canto rimane, anzi cresce, la sua rilevanza, come dimostrano i dati sull’impatto della pandemia su una fascia della popolazione meno contagiata ma che risulta essere pesantemente colpita dal punto di vista psicologico e relazionale e che vede compromesso il proprio progetto di vita. Un disagio che si rende evidente in episodi di violenza e alienazione, ma che alimenta soprattutto un malessere profondo che rischia di pregiudicare giovani e giovanissimi dal punto di vista delle capacità e delle motivazioni minando il loro sentiment di autoefficacia. Un aspetto, quest’ultimo, fondamentale per generare elementi trasformativi profondi a livello di contesto senza i quali è davvero difficile poter immaginare percorsi di crescita personale in grado di soddisfare aspirazioni e non solo bisogni contingenti.
L’emergenza giovanile si legge quindi non solo attraverso indicatori ormai classici, purtroppo, come la disoccupazione che l’Istat colloca oltre quota 30% (unico segmento di popolazione in controtendenza rispetto alla “ripresina” di fine 2020) ma anche attraverso quelle che si potrebbero definire le "nuove metriche della pandemia", in particolare per quanto riguarda la percezione di solitudine che secondo un recente sondaggio de Il Sole 24 Ore risulterebbe più acuta tra i giovani tra i 18 e i 34 anni (32% del campione) rispetto agli over 55 (21%). Una popolazione che rischia quindi di scomparire nel chiuso delle stanze di casa e in quelle dei social network.
La questione giovanile è comunque in buona compagnia, nel senso che viene accostata ad altre che vivono la stessa situazione di logoramento retorico da irrisolutezza e di crescita del livello di problematicità. Basti pensare, ad esempio, alle questioni del Meridione e femminile (peraltro significativamente intrecciate a quella giovanile) che, non a caso, rappresentano le priorità trasversali del famoso Piano nazionale di ripresa e resilienza in corso di faticosa elaborazione e dal quale dipenderà, in buona parte, il futuro del Paese.
Le strade da intraprendere per affrontare la questione
Se quindi, per evidenti ragioni, è necessario e urgente riprovare ad affrontare la questione giovanile, quali approcci e strumenti nuovi (o una nuova combinazione di essi) possono essere messi in campo? Quali insegnamenti si possono trarre in particolare da due campi d’innovazione, ovvero quella sociale del welfare e quella tecnodigitale delle piattaforme?
Un primo elemento è quello dell’abilitazione, o in termini più diretti della necessità di saper fare un passo indietro. Una prerogativa tanto suggestiva in termini di protagonismo, mobilità sociale, propensione al cambiamento dei giovani quanto complessa e ambivalente da maneggiare da parte dei gestori, sia dei servizi di welfare che delle risorse digitali perché evidentemente legati anche a vincoli dettati da modelli di servizio e di sostenibilità economica. Lo sanno bene, infatti, gli operatori del welfare, in particolare quelli che si occupano di politiche giovanili, sempre più stretti fra prestazioni che prevedono una qualche asimmetria tra erogatore e fruitore e la sollecitazione a de-istituzionalizzarle per favorire l’azione diretta dei giovani, soprattutto in forma collettiva. Lo sanno, altrettanto bene ma forse in un altro senso, i big player di piattaforme digitali sempre più impegnati a estrarre quote crescenti di valore dai contenuti dei network giovanili, col rischio però di sorpassare il livello di guardia generando forme di ribellione rispetto a questo predominio, anche se ancora in forma di minoranze attive, o peggio ancora forme di migrazione verso altre piattaforme quando il livello di “controllo” e la presenza di user adulti aumenta.
Un secondo elemento, strettamente correlato al precedente, riguarda la progettazione di attività, contesti, luoghi e servizi dove, rubando un concetto caro ai designer dei servizi, i giovani fanno da personas per rappresentare bisogni, comportamenti e desideri degli utenti reali. In questo caso la sfida è legata alla capacità di saper creare occasioni d’incontro tra le diverse popolazioni giovanile superando i vincoli dell’appartenenza sociale. Un’opportunità che, da una parte, è più semplice da realizzare rispetto alle rigidità di classe degli adulti e, d’altra, è foriera di trasformazioni più profonde considerando l’impatto che si potrà generare nel medio – lungo periodo su una società fortemente irrigidita come quella italiana.
Ma come si potrebbe realizzare concretamente questo matching tra i diversi strati sociali giovanili? Da un lato facendo appello al capitale di competenza e di voglia di fare la differenza che caratterizza, ormai in maniera sempre più diffusa, le generazioni giovanili dai millennials (ormai quarantenni) in giù, creando quindi artificialmente dei “vuoti di potere” che ne liberino il protagonismo non solo come attivisti nella società civile ma anche come change maker all’interno di organizzazioni private e istituzioni pubbliche che tendono invece a marginalizzarli sottovalutandone le competenze e annichilendo il loro effort di cambiamento, oppure confinandoli nella “riserva” ad altro rischio e a debita distanza dal “potere reale” delle startup. Dall’altro, moltiplicando il numero e la qualità dei punti di contatto (sia fisici che digitali) con i giovani più fragili per formare non solo competenze base hard ma allenare soft skills di relazione grazie anche a spazi e luoghi dedicati nei quali è possibile riprendere a fare educazione nel senso più radicale e originario del “tirar fuori” capacità e competenze, evitando di confonderla con formazione e addestramento, come spesso è avvenuto negli ultimi anni anche nei contesti che in teoria dovrebbero essere dedicati proprio ad educare.
Da questo punto di vista le piattaforme phygital, ovvero piattaforme digitali dotate di punti di contatto reali, possono costituire un’infrastruttura utile non solo a erogare servizi ma anche a gestire processi di coinvolgimento con soggetti che sono “user” attivi. Per questo servono welfare manager e community manager credibili agli occhi dei giovani, capaci di agire come designer che sanno assumersi il rischio di una coprogettazione reale, magari condividendo il know how e le credenziali d’accesso della piattaforma per descrivere le attività e dei social media per generare contenuti.
Proposta per una "People Strategy"
A lato di queste piste di lavoro vale forse la pena soffermarsi, infine, su un elemento trasversale alle riflessioni affrontate. Ovvero la possibilità di intravedere una “People Strategy” a livello Paese, ispirandosi a quello che avviene in molti contesti imprenditoriali. Il termine nasce infatti nell’ambito aziendale, ed è una strategia di gestione del capitale umano che punta a connettere benessere e soddisfazione del personale, miglioramento di competenze e professionalità soprattutto in ambito digitale, adozione di una visione trasformativa di lungo periodo. Rileggere la questione giovanile nell’ottica People Strategy implicherebbe:
- applicare seriamente, ad esempio come dimensione cardine di impatto sociale, l’approccio “youth mainstreaming” e quindi di fronte a ogni scelta politica e strategica porsi la domanda: qual è l’effetto di tale indirizzo sulla popolazione dei più giovani?;
- allineare la formazione al piano di sviluppo industriale ed economico del Paese; se negli anni scorsi molto è stato fatto sul fronte della formazione curriculare, molto invece rimane da fare su quella extracurricolare, in particolare sul fronte delle life skills;
- recuperare il divario di competenze tecnico scientifiche (STEM) come fattore di inclusione e di contrasto alla povertà educativa e non tanto come criterio di selezione elitaria;
- individuare nuove formule di sostegno economico (come ad esempio l’Eredità Universale proposta dal Forum disuguaglianze e diversità) che sostengano processi di de-familizzazione del nostro sistema di welfare, attivando processi di coesione sociale basati su legami di reciprocità più autentici volti cioè a capacitare invece che a incapsulare la libertà di scelta dei giovani.
Suggestioni queste che consegniamo per una proposta di lavoro aperta al contributo di coalizioni inedite di attori e caratterizzata da azioni che siano concretamente improntate a generare cambiamenti positivi e duraturi. Perché mai come per la “questione giovanile” l’orientamento impact rappresenta l’unica misura possibile per valutarne la reale rilevanza.