Da ormai vari anni in Giappone si vendono più pannoloni che pannolini. Si tratta del paese più “vecchio” del mondo: gli anziani con più di 65 anni sono il 27% della popolazione e aumentano ogni anno. Viene perciò da chiedersi: in futuro chi pagherà per i pannoloni? Se nascono sempre meno bambini, il rapporto fra lavoratori e pensionati è destinato a peggiorare, con effetti negativi sui redditi delle famiglie e soprattutto sul welfare.
La sindrome delle culle vuote riguarda per la verità tutti i paesi occidentali. Il tasso di fertilità (numero di figli nati vivi per donna) è da tempo sceso al di sotto del cosiddetto “ricambio naturale”: 2,1 figli. Se in un dato paese le donne fanno (in media) meno di due figli a testa, la popolazione lentamente diminuisce. Sino, teoricamente, ad estinguersi. Nella UE il paese più fertile – la Francia – è fermo a 1,9. In Italia siamo a 1,3. Solo l’immigrazione (governata) salverà l’Europa dalla catastrofe demografica.
Qualcuno potrebbe chiedersi: ma che male c’è se la popolazione diminuisce? Non siamo già troppi? Due domande ragionevoli, ma solo in apparenza. Facciamo un esperimento mentale e immaginiamo un’Italia che passi da 60 a 40 milioni di abitanti. Escludendo guerre e disastri naturali, tale calo potrebbe essere conseguito solo attraverso meno nascite. Raggiunti i 40 milioni, la struttura per età della popolazione assomiglierebbe a una specie di petalo: uno stelo sempre più sottile di bambini, che si ampia in un ovale fra i 45 e i 65 anni e poi si restringe fino a una punta di ultracentenari. Meno giovani e meno adulti sotto i 45 anni significa però meno PIL. Ciascun occupato si troverebbe a dover mantenere un anziano intero e un secondo per metà (un fardello tre volte maggiore di quello attuale). Vi sembra uno scenario sostenibile? Inoltre, se non vogliamo scendere sotto i 40 milioni e estinguerci progressivamente, a un certo punto il tasso di fertilità dovrà comunque risalire al fatidico 2,1% figli per donna. Per evitare la catastrofe demografico-economica, non c’è dunque alternativa: dobbiamo procreare di più. E dobbiamo farlo presto. Se non accogliamo più immigrati, la popolazione italiana scenderà da 60 a 50 milioni già nel 2050.
Per aumentare la natalità bisogna capire perché oggi è così bassa. I sondaggi segnalano che le donne europee fanno meno figli di quanti vorrebbero. Sarà un caso, ma il numero medio di figli desiderati si attesta proprio è intorno a 2,1. Vi è dunque un forte divario fra aspirazioni e realtà: non è una buona cosa. In Italia notiamo un fenomeno particolare. Il desiderio di figli resta basso fino a 30 o 35 anni e poi si impenna. Perché? Non è difficile capirlo se pensiamo alle caratteristiche del mercato del lavoro e del welfare. Le giovani donne sono oggi istruite quanto gli uomini, la grande maggioranza vuole avere una carriera e un proprio reddito. Ma i primi impieghi sono spesso precari e malpagati. L’arrivo di un figlio creerebbe costi aggiuntivi e difficoltà nel conciliare lavoro retribuito e lavoro di cura. Inoltre il mestiere di genitore è diventato più complesso ed esigente rispetto al passato. Siamo entrati nell’epoca del cosiddetto intensive parenting: non basta “tirar su” i figli, bisogna fornire loro – sin dalla prima infanzia – la maggior quantità di stimoli e opportunità. Per le madri che lavorano allevare un figlio diventa così un faticoso slalom fra orari, impegni, appuntamenti, scadenze. I padri italiani danno ancora scarso contributo alle incombenze della casa e dei figli.
Ma c’è di più e di peggio. Quando alla fine una coppia decide che il momento è “giusto”, non è detto che i figli arrivino. In Italia oggi primo figlio nasce a 32 anni circa. Negli ultimi cinque anni le madri over 40 sono raddoppiate (dal 3,1% al 6,2%) mentre le madri sotto i 24 anni sono diminuite dal 13 all’11,4%. La percentuale di bambini nati grazie alla procreazione assistita è sempre più alta. In Italia una coppia su cinque ha difficoltà a procreare per vie naturali, il doppio rispetto a vent’anni fa. Il desiderio di procreare aumenta quando è troppo tardi per riuscirci. Resta solo il rimpianto, figlio di due valutazioni errate: la sottostima dei rischi di infertilità (femminile e maschile) e la sovrastima delle tecniche riproduttive.
Che fare? Iniziamo a guardare che cosa fano gli altri paesi. Quelli che sono messi “meno peggio” (come Francia o Svezia) traggono oggi i frutti di politiche a sostegno dei figli e della conciliazione avviate già alcuni decenni fa. Per i paesi che non ci hanno pensato per tempo è difficile recuperare il terreno perduto. Così oggi assistiamo a una frenetica ricerca di misure “creative”, nella speranza che producano effetti immediati. Singapore e la Corea del Sud hanno recentemente introdotto “giornate nazionali per il concepimento’ (le aziende chiudono qualche ora prima). La Russia si è spinta più in là. Oltre al giorno del concepimento (12 settembre), Putin ha introdotto una ulteriore festività il 12 giugno, nove mesi dopo. Le donne che partoriscono naturalmente in quella data vincono un premio. In Danimarca il governo sussidia le agenzie di viaggio che offrono “copulation holidays” scontate alle giovani coppie senza figli. In Ungheria dopo il primo figlio si possono chiedere prestiti senza interessi, che saranno cancellati dopo l’eventuale arrivo del terzo figlio. Dopo il quarto figlio le madri non pagano più le tasse.
Per ora i risultati di questi esperimenti sono misti: ad esempio dopo le misure di Putin il tasso di fertilità ha iniziato a crescere. In Ungheria invece per ora nessun incremento significativo. Date le tendenze sempre più autoritarie di Orbàn, c’è da sperare che questo paese non passi dalle carote al bastone. Nella Romania di Ceausescu, a partire dai 25 anni i giovani senza figli dovevano pagare il 20% di tasse in più e subivano periodici interrogatori da parte di “unità di comando demografico” della polizia di regime in merito ai loro comportamenti sessuali.
Per ottenere risultati durevoli, la promozione della natalità non può limitarsi a misure creative o simboliche, ma deve poggiare su strategie ad ampio raggio. L’esempio più interessante è quello della Germania. Negli anni Duemila, la neo-Presidente dell’Unione europea, Ursula von der Leyen era Ministro del lavoro e degli affari sociali e introdusse una serie di misure a favore dei genitori: congedi familiari più lunghi, incentivi per i padri, il diritto a un posto negli asili nido per ogni bambino, imposte calibrate in modo da premiare le famiglie numerose. Dal 2007 ad oggi il tasso di fertilità è salito da 1,3 a 1,6. In un impietoso articolo, l’Economist del 29 giugno scorso ha paragonato il boomlet (piccolo boom) tedesco alla paralisi demografica del nostro paese: “i politici italiani non hanno idea di come incrementare il numero delle nascite” ha concluso il settimanale inglese.
In realtà in Italia il problema è ancora più serio: vi è una scarsa consapevolezza della sfida demografica e dunque la totale mancanza di attenzione verso le analisi e le proposte degli esperti. Le cose da fare sono note, non molto diverse da quelle tedesche. Nel 2016 io stesso lanciai sul Corriere l’agenda FAST, imperniata su quattro direttrici di marcia. F come famiglia: trasferimenti e agevolazioni fiscali capaci di ridurre il costo dei figli senza disincentivare il lavoro delle madri. A come asili, soprattutto nidi. S come servizi, in particolare per l’assistenza agli anziani, di modo che figlie e nuore non debbano sacrificare la procreazione per i troppi carichi di cura. T come tempi: orari flessibili, lavoro “agile”, riorganizzazione dei “tempi della città” e così via. In inglese fast vuol dire veloce. L’agenda FAST avrebbe dovuto assumere carattere di urgenza e tradursi rapidamente in misure concrete. Ben poco è stato fato, l’agenda FAST resta perciò attualissima.
Nel 2016 il governo italiano indisse una «Giornata nazionale di informazione e formazione sulla fertilità» per il giorno 22 settembre di ogni anno. Non risulta che tale giornata sia stata abolita. Vista l’occasione, ci piacerebbe dunque conoscere i programmi del governo per contrastare il calo delle nascite e recuperare un minimo di sostenibilità demografica nel medio e lungo periodo. Se questi programmi non ci sono, ci spieghino almeno perché. Sennò ha ragione l’Economist: abbiamo politici non solo disattenti ma anche privi di idee rispetto alla sfida più “vitale” per il nostro paese.
Questo articolo è stato pubblicato all’interno di "Sette", settimanale del Corriere della Sera del 23 agosto 2019, ed è stato qui riprodotto previo consenso dell’autore.