I cambiamenti nella struttura sociale e demografica del nostro Paese, l’emergere di nuovi rischi sociali e le conseguenze connesse alla crisi economico-finanziaria hanno profondamente cambiato il volto del welfare italiano. Negli ultimi anni il sistema di protezione pubblico è infatti apparso in crescente difficoltà nel fornire risposte efficaci alle richieste provenienti dai cittadini. Di conseguenza sono nate forme di “secondo welfare” che, mobilitando risorse economiche non pubbliche, hanno cercato di integrare e sostenere il welfare state in difficoltà. All’interno di questo “universo” si trova anche il welfare occupazionale, cioè quell’insieme di servizi e prestazioni fornite ai dipendenti dalle aziende private e dallo Stato (nella sua veste di datore di lavoro) in conseguenza del rapporto lavorativo che intercorre fra i primi e i secondi. Il welfare aziendale, ma anche le misure di flessibilità destinate ad agevolare l’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro, trovano la loro origine proprio in questo contesto.
La diffusione del welfare occupazionale ha conosciuto una forte crescita anche grazie ad alcune tappe fondamentali. In primis, attraverso le ultime Leggi di bilancio, il legislatore ha apportato dei cambiamenti significati alla normativa di riferimento in modo da dare maggiore spazio alle prestazioni destinate a coprire i nuovi rischi sociali, incoraggiare la partecipazione del sindacato e rafforzare il sistema di fiscalità agevolata per le imprese. Grazie all’intervento del Governo Renzi prima e del Governo Gentiloni poi, si è cercato inoltre di rendere queste misure maggiormente attrattive correlandole alle dinamiche riguardanti la produttività.
A distanza di tre anni da questa ondata riformatrice le indagini più attente evidenziano però come la diffusione del welfare aziendale non sia uniforme. È infatti possibile osservare una distribuzione “a macchia di leopardo” del fenomeno, che tende a concentrarsi nelle imprese grandi e medio-grandi, nelle multinazionali, nelle multi-localizzate e ad affermarsi con intensità variabile nei diversi settori produttivi. Si registrano poi importanti disuguaglianze territoriali nella diffusione di questi strumenti, più comuni tra le aziende del Nord che in quelle del Centro e del Mezzogiorno, che anche su questo fronte sembra scontare un ritardo rilevante. Secondo i più critici, tutto ciò contribuirebbe allo sviluppo di un sistema sempre più iniquo e destinato a moltiplicare le disuguaglianze nel mondo del lavoro.
È per questo che tali sfide impongono riflessioni urgenti sulla necessità di identificare e promuovere strumenti innovativi, capaci di superare i limiti incontrati sino ad oggi. Opportunità interessanti arrivano, ad esempio, dallo sviluppo della contrattazione collettiva e territoriale, che potrebbe costituire lo strumento più appropriato per favorire la cultura del welfare in azienda. Maggiore apertura può derivare anche da strategie di aggregazione tra imprese – attraverso contratti di rete o partnership mirate – e tra imprese e altri soggetti, come il Terzo Settore, gli Enti Bilaterali e le amministrazioni pubbliche locali. In questo senso, una maggiore inclusione del territorio e della comunità locale potrebbe contribuire proprio a scongiurare crescenti forme di disuguaglianza.
Questo articolo è stato pubblicato su "Corriere Buone Notizie", inserto settimanale del Corriere della Sera, del 15 gennaio 2019, e qui riprodotto previo consenso dell’autore. Il contributo fa parte dell’inchiesta sul tema del welfare aziendale curata dal giornalista Paolo Riva.