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“Che cosa c’entra l’ente bilaterale con il welfare? Quando ho incrociato, ormai diversi anni fa, l’esperienza di Adriano Olivetti che tutt’oggi io considero un guru su questi temi, la prima cosa che ho pensato è stata ‘Ah, si è inventato un ente bilaterale ante litteram, perché lui aveva la gestione bilaterale dei servizi sociali’. Questo per dire quanto le due cose in realtà siano allineate fra di loro”. Marco Palazzo esordisce così quando vuole spiegare la funzione dell’Ente Bilaterale Veneto FVG, di cui è Direttore e che da diversi anni è capofila dell’ampio partenariato che contraddistingue il progetto “WelfareNet: reti in rete”. In questa intervista, Palazzo ci aiuta a fare luce sull’esperienza di questa innovativa rete veneta, dal suo avvio ad oggi.

Dott. Palazzo, WelfareNet è una rete attiva ormai da quattro anni: può raccontarci da quale idea è nato questo progetto?

Siamo partiti nel 2014, quindi prima della Legge di Stabilità del 2016 – questo ci tengo a sottolinearlo perché non siamo partiti dal tema fiscale rispetto al tema del welfare aziendale dal momento che consideriamo la fiscalità un aspetto importante ma pur sempre marginale rispetto a tutto quello che comporta fare welfare aziendale – e siamo partiti da una domanda: ‘il welfare aziendale riguarda solo Luxottica (o Ferrero se volessimo prendere come riferimento i territori di Cuneo e Alba) oppure riguarda anche le aziende che hanno 10, 15, 20 dipendenti?’.

Abbiamo iniziato con una prima sperimentazione del progetto nel quadro della programmazione del Fondo Sociale Europeo 2006-2013 grazie a un bando della Regione Veneto sulla responsabilità sociale di impresa all’interno del quale era prevista un’area dedicata al tema della conciliazione vita-lavoro a livello provinciale. Noi abbiamo lavorato sulle province di Padova e Rovigo e in quel progetto abbiamo realizzato – in un tempo molto breve, sei mesi, perché si era ormai al termine della programmazione – 60 piani di welfare aziendale. Di queste 60 aziende 58 avevano meno di 100 dipendenti, la media era intorno ai 40-50 dipendenti, e c’erano addirittura 10 aziende che avevano meno di 15 dipendenti.

Se non siete partiti dal tema fiscale, allora che cosa vi ha spinto ha iniziare questa sperimentazione?

I dati da cui siamo partiti per costruire il nostro progetto sono quelli che ci dicono che in Italia non si fanno più figli e da molti anni siamo ampiamente sotto la soglia di sostituzione pari a 2,1 figli per coppia; che l’Italia è un Paese che invecchia e si trova in una situazione in cui la sostenibilità economica futura del sistema pensionistico è a rischio; che l’Italia continua ad avere tassi di occupazione femminile troppo bassi, molto al di sotto della media europea. Tutto questo in un periodo in cui i fondi pubblici per le politiche sociali, soprattutto a livello comunale, si sono ridotti drasticamente. Quindi bisognava cominciare a ragionare su un modello di welfare diverso: sussidiario, integrato e territoriale. Tenere insieme il tema dell’occupazione femminile e della natalità ci ha portato a lavorare sui servizi e quindi sull’analisi dei fabbisogni e delle esigenze di conciliazione vita-lavoro dei lavoratori e abbiamo scoperto che la prima esigenza delle persone è la flessibilità degli orari.

Dopo il suo avvio e la prima fase, come è proseguito il progetto?

Nel 2016 la Regione Veneto ha promosso un secondo bando incentrato sull’occupazione femminile, diviso in 3 azioni: una per lavorare sulla rete dei servizi, una per lavorare sulle aziende, una sui disoccupati. Grazie a questo secondo bando il progetto ha cominciato a diventare quello che è realmente, cioè ha preso un respiro regionale e non più riguardante le sole province di Padova e Rovigo e abbiamo cominciato a ragionare di alcuni temi fra cui il territorio, gli aspetti contrattuali e la bilateralità, la qualità dei servizi. È così che è cresciuto e si è rafforzato WelfareNet, un progetto che ha cercato e cerca tutt’ora di mettere in collegamento tre realtà che normalmente non parlano fra di loro: la prima è il welfare aziendale pensato anche per le imprese molto piccole; la seconda è quella del welfare contrattuale attraverso gli enti bilaterali, l’assistenza sanitaria integrativa, i fondi pensione contrattuali, la banca delle ore, la flessibilità degli orari; la terza è il welfare territoriale, vale a dire i servizi che ci sono nel territorio, incluso il collegamento con gli enti pubblici.

Quando faccio riferimento ai “servizi nel territorio”, per capirci, intendo dire che se ci sono dei lavoratori che hanno delle risorse di welfare aziendale da spendere, noi preferiamo che anziché spenderle su Amazon, le spendano negli esercizi commerciali del territorio, perché in questo modo si alimenta l’economia, si valorizzano i servizi locali e ne beneficiano non solo quei lavoratori, ma anche tutti i cittadini del territorio. In questa prospettiva, uno dei nostri obiettivi era individuare tutta una serie di soggetti che potessero partecipare a un sistema in cui ognuno avesse un ruolo e uno scopo significativo, inserito in un disegno generale, che non riguardasse solo l’impresa, solo le parti sociali, solo i consulenti del lavoro, i Comuni, ma tutti questi attori insieme.

Aggiungo che WelfareNet è un progetto che ha ricevuto un contributo fondamentale dai due bandi della Regione Veneto, ma è stato sempre pensato come progetto che dovesse camminare con le proprie gambe e non solamente con il sostegno del fondo regionale: per noi il finanziamento pubblico era, come dire, una sorta di start up iniziale.


Il progetto WelfareNet, collegato al secondo bando, ha un sottotitolo significativo che è “Reti in rete”: ci può spiegare che cosa significa esattamente?

WelfareNet, di fatto, è una rete di reti. In particolare, io penso a tre tipi di reti: la rete dei servizi del territorio; la rete di aziende, perché ovviamente lavorando sul welfare aziendale di imprese molto piccole o le metti in rete fra di loro o la cosa non funziona; e la rete dei partner. A proposito di quest’ultima, l’Ente Bilaterale Veneto FVG è capofila di un partenariato molto ampio, che oggi conta più di 400 associati, tra cui ci sono, oltre a Confesercenti, la Confcommercio e gli enti bilaterali di Confcommercio – e già questo è un caso unico perché che Confesercenti e Confcommercio siano insieme nello stesso progetto non è scontato –, Confcooperative, gli enti di formazione di Confindustria e Confartigianato, le organizzazioni sindacali dei lavoratori, sia a livello confederale che a livello di categoria del commercio e del turismo, l’Università di Padova e l’Università Ca’ Foscari, diverse USL, anche importanti, come quella di Venezia, molti Comuni e Unioni dei Comuni, alcuni operanti all’interno delle Alleanze per le famiglie (ce ne sono ben trenta in Veneto attualmente), ma anche cooperative, imprese, e realtà che si sono inventate servizi innovativi di conciliazione vita-lavoro.

Come avete proceduto per costituire un partenariato così ampio e con quali obiettivi?

Siamo partiti costituendo un tavolo tecnico formato da tre società esperte di welfare: una è Innova SRL di Cittadella, una è Smart and Life di Scorzè, una realtà collegata al Family Audit di Trento, e la terza è Variazioni SRL, società con sede in Lombardia. Con il supporto dell’Università di Padova abbiamo cominciato a ragionare tecnicamente su alcuni aspetti che poi abbiamo riportato al “tavolo di governance”, un tavolo costituito da tutte le parti sociali, sia datoriali che sindacali, partner del progetto. Questa è stata un’esperienza davvero significativa, siamo riusciti a mettere attorno ad un tavolo tutti questi soggetti e abbiamo dialogato su una serie di questioni strategiche, tra cui che cosa intendevamo per piano di welfare, se si poteva standardizzare un piano di welfare pensato per la piccola impresa, come classificare i servizi inclusi nei piani di welfare aziendale.

Può sembrare una banalità ma in realtà ci siamo confrontati per mesi su quest’ultimo punto interrogandoci su che cosa intendiamo esattamente quando parliamo di servizio di welfare. Questo è un aspetto fondamentale perché senza una classificazione precisa non si riesce a mettere insieme la classificazione dei servizi degli enti bilaterali con la classificazione prevista dagli articoli 51 e 100 del TUIR con quello che poi richiedono le persone e i lavoratori in termini di conciliazione vita-lavoro, che va ben oltre gli aspetti fiscali. Quindi la classificazione ci serviva per mettere in relazione elementi che altrimenti non avrebbero dialogato tra di loro.

Ma quali sono i servizi offerti da WelfareNet?

I servizi che stiamo mappando li abbiamo raggruppati in sei aree distinte: si passa dalla famiglia al tempo libero, da salute e benessere ai servizi che noi chiamiamo “salvatempo”; e poi abbiamo l’area della formazione e, infine, l’area che include spesa, casa e auto. Con riferimento ai servizi “salvatempo”, cito un’esperienza interessante che è stata avviata a Belluno con l’azienda “La Marcolin”: è stato attivato il servizio di maggiordomo per i lavoratori, con un’app che permette di richiedere di portare i vestiti in lavanderia, ma anche di ritirare le raccomandate alla Posta o di comprare le marche da bollo. L’azienda ha messo a disposizione una persona che si chiama Matilda, che è il nome che poi è stato dato all’app, che svolgeva queste stesse mansioni per conto dei lavoratori. Quello che serviva era lo strumento per organizzare le varie richieste dei lavoratori e capire se fossero state evase oppure no: da qui l’idea di utilizzare un’app. Noi oggi, a seguito di questa sperimentazione, che ha riguardato una singola azienda di Belluno, stiamo verificando la fattibilità di trasformare questa esperienza in una opportunità per una pluralità di aziende e di lavoratori del territorio.


Vi siete anche posti il tema di come rilevare i bisogni dei lavoratori? Se sì, come avete affrontato questo aspetto?

Sì, un altro tema centrale è stato proprio l’analisi dei fabbisogni dei lavoratori, su cui abbiamo elaborato dei questionari con l’idea di utilizzare tutti lo stesso strumento. Poi qualcuno ha preferito utilizzare strumenti propri, ma eravamo almeno riusciti a condividere l’importanza di poter disporre di un unico questionario standard. Se tutti utilizzassero lo stesso questionario per analizzare le esigenze della singola popolazione aziendale, i consulenti di welfare, ma anche l’ente pubblico o le parti sociali, avrebbero a disposizione dati confrontabili con altre realtà aziendali e dati significativi sulle esigenze di un territorio. Sulle esigenze dei lavoratori abbiamo previsto che come punto fisso che nell’erogazione dei piani di welfare ci fosse un momento in cui si analizzavano le esigenze dei dipendenti.

Riporto due casi esemplificativi: è inutile spendere migliaia di euro per fare l’asilo nido aziendale, come è capitato ad un’azienda di cui ci siamo occupati, e poi scoprire che quella stessa azienda non ha lavoratori con figli sotto i 3 anni; oppure il caso di un’azienda di informatica con una popolazione aziendale molto giovane che ha pensato di offrire, come servizio di welfare, la palestra, dando per scontato che tutti i giovani vadano in palestra: peccato che questi “giovani” dipendenti non avessero il tempo di andare in palestra perché al termine della giornata lavorativa la palestra era già chiusa. Quando l’azienda ha fatto un’analisi dei fabbisogni ha compreso che era molto più utile per i dipendenti avere il servizio di lavanderia in azienda per lavare e stirare le camicie visto che erano quasi tutti single e avevano difficoltà a farsi il bucato ma dovevano sempre vestirsi in giacca e cravatta. Racconto questo per ribadire l’importanza di disporre di un questionario standard: serve perché fare un’analisi dei fabbisogni costa un sacco di soldi e se un’azienda che ha 500 e più dipendenti se lo può permettere, non è così per un’azienda con 30 dipendenti – senza contare che dopo due anni un’analisi dei bisogni è già vecchia perché cambiano le esigenze, i lavoratori all’interno dell’azienda crescono, si sposano, fanno figli, vedono invecchiare i genitori… Insomma, le esigenze sono in continua evoluzione ed era quindi necessario individuare uno strumento che abbattesse significativamente i costi anche dell’analisi dei fabbisogni soprattutto a beneficio delle piccole imprese.

Ci sono altri aspetti di cui vi siete occupati?

Abbiamo definito un codice etico per gli erogatori dei servizi di welfare e abbiamo dialogato anche sulle varie piattaforme e sui vari provider esistenti nell’ambito del welfare aziendale. Ci siamo poi occupati dell’esigenza di individuare delle modalità per arrivare a fare un accordo sindacale anche nelle aziende di piccole dimensioni, un tema complesso per le parti sociali. E poi abbiamo affrontato il tema della comunicazione. Qui è emblematica l’esperienza di una grossa cooperativa dell’Emilia Romagna che nel 2015 ha realizzato un piano di welfare per i propri dipendenti investendo praticamente solo sulla comunicazione. Non hanno fatto altro che mettere insieme tutto quello che già avevano a disposizione per i dipendenti e caricarlo su un unico sito internet. Erano servizi già esistenti di cui però i lavoratori non erano a conoscenza. Gli stessi servizi, promossi attraverso il sito internet, hanno accresciuto tra i lavoratori la percezione che l’azienda facesse moltissimo per loro anche se in realtà offriva esattamente gli stessi servizi. Semplicemente l’azienda aveva iniziato a comunicarli meglio.

L’ultimo aspetto da considerare è ovviamente il monitoraggio degli obiettivi. Definiti con il titolare dell’azienda e con i lavoratori i servizi da attivare, è poi necessario monitorare che tali servizi si traducano in risultati che rispondano alle esigenze espresse dai dipendenti.

In che modo WelfareNet ha provato ad avvicinare le aziende più piccole al tema del welfare?

Lavorando con le aziende piccole il tema che emerge più frequentemente è quello che ha a che fare con le imprese che ci dicevano “ma noi non abbiamo soldi da mettere”, proprio perché si pensa sempre al welfare aziendale solamente come a una questione fiscale. Noi abbiamo elaborato una serie di passaggi per cui, prima di affrontare il fatto che l’azienda debba mettere dei soldi, ragioniamo sull’organizzazione degli orari, sull’organizzazione interna, su come comunicare meglio i servizi offerti dagli enti bilaterali a cui l’azienda aderisce e i lavoratori già pagano, sulle convenzioni con il territorio. Su tutto questo si possono attivare molte opportunità interessanti senza chiedere un euro all’azienda. Successivamente si può pensare anche ad un investimento che porti all’introduzione di un piano di welfare aziendale.

Questo è l’approccio che abbiamo verificato essere vincente con aziende molto piccole, che non sono in grado di mettere risorse. Vi faccio un altro esempio. Un’azienda commerciale di una decina di dipendenti aveva ricevuto la richiesta da parte di 3 o 4 dipendenti di accorciare la pausa pranzo perché non avevano il tempo di tornare a casa e quindi restavano in azienda a far nulla, mentre l’altra metà dei dipendenti chiedeva di allungare la pausa pranzo perché voleva andare a casa. Il titolare temeva di “scontentare gli uni o gli altri”. Il consulente, all’interno del progetto WelfareNet, è intervenuto nell’azienda e non ha fatto altro che proporre due turni: alcuni lavoratori hanno così accorciato la pausa pranzo, altri l’hanno allungata, e alla fine il negozio è rimasto aperto un’ora in più e il titolare ci ha detto “pensavo di trovare una soluzione per agevolare i lavoratori e alla fine ci ho guadagnato io perché ho tenuto aperto il negozio un’ora in più”. Può sembrare una soluzione banale ma evidentemente c’era bisogno di un soggetto esterno che intervenisse per trovare questa soluzione.

Ma quale ritiene che sia il vero punto di forza del progetto WelfareNet?

Ritengo che il focus vero del progetto WelfareNet sia ciò che noi abbiamo chiamato “la rete del welfare”, cioè il fatto di mettere in rete tutti i soggetti che erogano servizi di welfare, sia pubblici che privati. Quindi gli enti bilaterali, le imprese, il Terzo settore ma anche i Comuni. I Comuni offrono gli asili nido, i centri estivi per gli anziani, la mensa e il trasporto scolastico, le biblioteche e molti altri servizi di welfare – oltre ad essere un soggetto che in qualche modo potrebbe, anche se questo non siamo ancora riusciti ad attivarlo, diventare il coordinatore degli orari del territorio: per andare a rifare la carta di identità in Comune dobbiamo chiedere il permesso di lavoro, per andare in posta a ritirare la raccomandata dobbiamo chiedere il permesso di lavoro, per andare in banca dobbiamo chiedere il permesso di lavoro, quindi tutto il tema degli orari riguarda la sfera lavorativa, mentre non si parla mai degli orari dei servizi del territorio.

Questa rete non è solo un modo per caricare i servizi offerti dai vari soggetti in una qualche piattaforma informatica: è piuttosto una rete attraverso cui cerchiamo di fare dialogare soggetti diversi che normalmente non dialogano. Anche qua vi faccio due esempi. I Comuni o le cooperative che gestiscono gli asili nido non sanno che gli enti bilaterali danno agli iscritti un contributo per l’asilo nido. Se queste informazioni fossero conosciute e condivise ne risulterebbe un vantaggio per il lavoratore che potrebbe richiedere il contributo per l’asilo nido all’ente bilaterale e allo stesso tempo usufruire dell’asilo comunale; lo stesso discorso vale per le librerie o per gli ottici: gli enti bilaterali rimborsano le spese per i libri di testo o per l’acquisto delle lenti per occhiali. Altro esempio: la scuola che non ha le risorse economiche e il know-how per attivare dei centri estivi resta chiusa nei mesi di vacanza scolastica mentre nel territorio c’è una cooperativa che avrebbe le competenze e le risorse umane per gestire il centro estivo che non ha a disposizione gli spazi per farlo. Il risultato è che la scuola resta chiusa e nessuno attiva il centro estivo. Far dialogare questi due soggetti porta ad attivare nel territorio un servizio grazie alla collaborazione tra enti diversi, un servizio che prima non era possibile perché i due soggetti ragionavano per conto proprio. Questa rete di servizi viene messa a disposizione di tutti i lavoratori delle aziende – grandi e piccole – che attivano dei piani di welfare e che aderiscono alla rete.

Quali sono le specificità di WelfareNet?

Io ho incrociato diverse realtà (quando siamo partiti avevamo guardato alla rete GIUNCA, siamo andati a conoscere che cosa proponeva Confindustria di Parma, siamo andati a vedere che cosa faceva Confcooperative di Bologna, siamo andati a diversi convegni) e pian piano abbiamo acquisito una consapevolezza su quello che stavamo facendo e ci siamo resi conto che la rete su cui stiamo lavorando ha quattro caratteristiche peculiari che ad oggi, e spero solo fino ad oggi, sono uniche, credo in tutta Italia.

La prima di queste è la capillarità dei servizi. Il problema principale che ha la maggior parte delle piattaforme e dei provider di welfare aziendale (io ne ho incontrati numerosi personalmente), è il fatto che hanno 30-40 grosse convenzioni nazionali con le Poste, Trenitalia, con qualche banca (se non è la banca stessa ad avere una sua piattaforma), e via dicendo, però poi quando il lavoratore ha bisogno dell’asilo nido sotto casa non arrivano a quel livello di dettaglio nel territorio. Questo è quello su cui noi abbiamo lavorato. È ormai un anno e mezzo che stiamo incontrando le librerie, gli ottici, gli asili nido, le cooperative che si occupano di anziani, quelle che attivano delle app per offrire servizi di conciliazione vita-lavoro, i benzinai che magari ti portano l’auto lavata sotto l’ufficio… Li stiamo incontrando uno per uno. Loro non hanno la più pallida idea di che cosa sia il welfare aziendale e noi gli diciamo: “Ti rendi conto che domani potrebbe arrivare da te un lavoratore e dirti ‘voglio comprare gli occhiali da te ma non li pago io, paga la mia azienda con il mio conto welfare’. Come facciamo questa cosa?”. Li stiamo sensibilizzando su questo aspetto e li stiamo inserendo nella nostra rete. Questa capillarità oggi non la troviamo sostanzialmente in nessun’altra piattaforma.

Il secondo elemento che ci contraddistingue è la sussidiarietà, nel senso che per noi questa rete di servizi non è solo privata ma è pubblico-privata, cioè inseriamo anche i Comuni all’interno della rete, cosa che normalmente le grosse piattaforme non fanno. E non lo fanno per un motivo abbastanza semplice: molte piattaforme hanno due introiti, da una parte prendono soldi dalle aziende che attivano i piani di welfare aziendale, dall’altra parte prendono i soldi da chi eroga i servizi, chiedendo una quota in base ai lavoratori che usufruiscono del servizio. Siccome noi vogliamo lavorare sul territorio e vogliamo valorizzare i servizi del territorio non possiamo e non vogliamo chiedere soldi a chi eroga i servizi all’interno del territorio. I provider non possono chiedere i soldi ai Comuni, perché non glieli darebbero, e il fatto di chiedere soldi agli erogatori di servizi genera una distorsione di cui anche loro sono consapevoli. Ho parlato con i gestori di diverse piattaforme che sono assolutamente consapevoli di questa distorsione e del fatto che i servizi che propongono ai lavoratori nei piani di welfare non sono tanto quelli di cui hanno davvero bisogno, ma sono quelli su cui loro guadagnano di più generando un’offerta che spesso non corrisponde a quelle che sono le esigenze. Nel caso di WelfareNet, il fatto di non chiedere soldi ai fornitori di servizi ci mette nelle condizioni di cercare quei servizi che veramente rispondano alle esigenze delle persone e dei lavoratori e di proporre ai Comuni di mappare per conto loro i servizi presenti sul territorio, di sensibilizzare le aziende del territorio insieme a loro, di attivare dei tavoli di lavoro pubblico-privati con i vari erogatori dei servizi.

Il terzo elemento riguarda il collegamento con gli enti bilaterali. Anche in questo caso abbiamo pensato ad una soluzione che, vista lato utente, sembra di una banalità estrema, ma in realtà presuppone un lavoro di back-office complesso perché in Veneto, solo in Veneto, solo nel commercio e nel turismo, esistono 12 enti bilaterali, a cui vanno aggiunti quelli di altri settori, come EBAV per l’artigianato, quello di vigilanza privata, quelli degli studi professionali, ecc. Mettere insieme tanti enti bilaterali così diversi è complicato e la logica su cui noi abbiamo lavorato è stata quella di dire: “Immaginatevi un lavoratore che sta cercando l’asilo nido. Va sulla piattaforma che la sua azienda ha attivato per il piano di welfare aziendale, per sapere dove può spendere il suo conto welfare, e trova l’asilo nido che gli interessa. Apre la pagina di descrizione dell’asilo nido e la piattaforma gli dice: guarda che per questo asilo nido tu puoi richiedere il rimborso anche all’ente bilaterale”. Tutto questo è complesso da realizzare perché la piattaforma deve sapere che quel lavoratore è dipendente di quell’azienda, che quell’azienda applica quel contratto collettivo ed è iscritta a quell’ente bilaterale e che quell’ente bilaterale rimborsa quella tipologia di servizio. È un servizio fondamentale per il lavoratore perché se lui non ha questa informazione e spende i soldi del conto welfare per l’asilo nido e poi vuole andare a fare la spesa l’ente bilaterale non gli rimborsa la spesa ma lui ha già esaurito i soldi del conto di welfare aziendale. Se invece mettiamo le informazioni insieme, lui utilizza i soldi dell’ente bilaterale per l’asilo nido e gli restano ancora i soldi per fare la spesa con i soldi del “conto welfare”. Mettere “semplicemente” insieme le informazioni genera un aumento del “portafoglio” del lavoratore oltre ad offrire maggiori opportunità e servizi. Questa cosa, finora, non l’ho trovata da nessun’altra parte. Sembra che nessuno si stia preoccupando di come la bilateralità possa dialogare con il welfare aziendale, invece noi lo riteniamo strategico, per questo siamo capofila di un progetto di questo tipo.

L’ultimo elemento distintivo è quello che tra di noi chiamiamo “gli elefantini”, cioè una misurazione qualitativa dei servizi di welfare, che si aggiunge alla firma del codice etico, obbligatoria per tutti i nostri erogatori di servizi. Con il tavolo tecnico e con il tavolo di governance abbiamo costruito 60 indicatori, che mappiamo quando incontriamo gli erogatori di servizi. Questi indicatori sono suddivisi in ambiti diversi: infanzia, anziani, orari, prezzi, servizio a domicilio in azienda o a casa, attrezzature mediche, sostegno del territorio e del no-profit. Sulla base di quanti ambiti vengono toccati, di quanti di questi servizi hanno gli erogatori, assegniamo un punteggio che attribuisce un certo numero di elefantini. Questo concorre a dare maggiore visibilità all’erogatore di servizi e permette anche di fare ricerche per singoli indicatori – ho il genitore anziano in sedia a rotelle e devo andare a mangiare la pizza, voglio capire se il posto prescelto ha o meno le scale… Grazie agli elefantini posso selezionare il fornitore di servizi che meglio risponde alle mie esigenze. All’inizio li avevamo chiamati indicatori “family-friendly”, ma ci siamo accorti che non esiste solo la famiglia, ci sono anche i single. Faccio un esempio per capirci: io vado a mangiare al ristorante. A prescindere che al ristorante si mangi bene o male, io posso trovare il fasciatoio in bagno, posso trovare lo spazio giochi per i bambini, posso avere o non avere barriere architettoniche, posso avere uno sconto per le famiglie numerose.

Quali sono i fronti su cui state lavorando pensando al futuro e al rafforzamento di questo progetto?

In questi anni abbiamo incrociato una serie di soggetti e di imprese – tra cui anche start up innovative e interessanti – e in qualche modo siamo diventati un po’ il punto di riferimento che mette in collegamento queste diverse realtà. La nostra attenzione è sempre più rivolta al modo in cui è possibile rendere fruibili per i lavoratori i servizi presenti sulle tante e diverse piattaforme di welfare aziendale. Oggi quello che succede è questo: la singola piattaforma propone la struttura informatica, la consulenza per attivare il piano di welfare aziendale e i servizi che sono collegati a quella specifica piattaforma. Questo normalmente è quello che propongono i vari provider nazionali. Vuol dire che, quando entra in azienda, la preoccupazione principale del gestore nazionale è normalmente quella di vendere la piattaforma con tutti i servizi collegati. Quello che noi abbiamo fatto, invece, è stato separare concettualmente le varie fasi. Ossia separiamo la consulenza dalla piattaforma in quanto mero strumento informatico. Ci appoggiamo anche a più consulenti e questo permette al consulente di non avere il problema di vendere la piattaforma: se l’azienda è piccola infatti è probabile che ci sia bisogno solo di una riorganizzazione aziendale, non di una piattaforma, e in questi casi il consulente si occupa solo della riorganizzazione.

L’altro passaggio-chiave è distinguere lo strumento informatico, la piattaforma, da quelli che sono i servizi. Poniamo che io sia un provider dotato di una piattaforma e mi rivolgo all’asilo nido locale. Un secondo provider con un’altra piattaforma va dallo stesso asilo nido, e poi un terzo con un’altra piattaforma contatta lo stesso asilo nido. Abbiamo speso tre volte le energie e ognuno ha un solo asilo nido all’interno della propria piattaforma e alcuni servizi restano fuori. Quello che noi proponiamo è di condividere la rete dei servizi, che per noi è la rete di servizi WelfareNet di cui vi ho parlato prima, per cui ogni provider con la stessa fatica può avere in piattaforma tre asili nido perché in tre andiamo da tre asili nido diversi in modo tale che ognuno disponga di una rete di servizi più ampia e quindi di un’offerta migliore. Per fare questo noi non ci appoggiamo ad una singola piattaforma nell’erogare i servizi che stiamo mappando ma cerchiamo accordi e convenzioni anche con altre piattaforme, anche perché – per fare un esempio – la libreria non ha nessun interesse a stare su una sola piattaforma di welfare, ma ha interesse a stare su più piattaforme possibili. L’obiettivo, quindi, è quello di mettere in rete i servizi a beneficio di più operatori di welfare aziendale diversi tra loro.

Tutto questo è possibile solo se c’è un vero dialogo tra i soggetti e questo, a sua volta, presuppone innanzitutto un cambiamento culturale. Quest’ultimo è la difficoltà maggiore che abbiamo riscontrato perché ognuno tende a voler coltivare il proprio “orticello”. Invece, questo cambiamento culturale porta assolutamente ad un miglioramento, tanto è vero che la frase che un po’ ci caratterizza è un proverbio africano che ho letto in una bacheca di un’azienda di Venezia che dice “Se vuoi andare veloce fai le cose da solo, se vuoi andare lontano fai le cose insieme agli altri”.