Il «Decreto Dignità» ha come bersaglio principale il lavoro a termine, considerato come fonte primaria di insicurezza per un grandissimo numero di giovani. Secondo il governo la soluzione sta nei disincentivi alle imprese, sotto forma di vincoli e penalità contributive. Questa impostazione ha creato un crescente antagonismo fra governo e Confindustria, e nel dibattito pubblico sono riemersi toni e simboli (come il termine «padroni») che ricordano gli anni Settanta. Il desiderio del ministro Di Maio di dare un segnale immediato, e possibilmente a costo zero, sui temi di sua competenza può essere comprensibile. È però doveroso chiedersi se l’approccio prescelto sia corretto. La precarietà di lavoro e reddito riguarda non solo i contratti a termine, ma anche molte altre categorie occupazionali come lavoratori autonomi, partite Iva, start up di nuove piccole imprese. Il tempo determinato non è una «piaga» dell’industria: è più diffuso nei servizi e riguarda persino la pubblica amministrazione. Il lavoro non standard è in rapida diffusione in tutti i Paesi Ue. In Francia, Olanda, Paesi nordici, Spagna, Portogallo, la quota di occupati che si trova in questa situazione è più elevata che in Italia. Stanno poi nascendo figure professionali completamente nuove intorno alle cosiddette piattaforme della gig economy: siti online dove si incrociano domanda e offerta di prestazioni che possono essere svolte «in remoto» (spesso da casa propria) su scala globale.
La Ue stima che il 2% della popolazione adulta sia già oggi coinvolto in questo tipo di attività. Secondo gli esperti il tradizionale contratto a tempo indeterminato è destinato a giocare un ruolo sempre più ridotto nel mercato occupazionale di domani. Il lavoro non sparirà, ma sarà sempre più flessibile: frequenti cambiamenti di posizione, anche in settori diversi, accelerazioni e rallentamenti nelle quantità e nei tempi di attività, in parte espressamente scelti, alternanza fra lavoro e formazione e così via. In un contesto simile, insistere con le tutele contrattuali sul posto di lavoro è come tappare con un dito una diga piena di buchi. Certo, si devono contrastare gli abusi e degenerazioni. Ma occorre farlo con una matita a punta fine, in base a conoscenze dettagliate di pratiche e contesti, non con provvedimenti che fanno di ogni erba un fascio. Per quei settori dove è ancora possibile la transizione dal lavoro a termine a quello stabile, la diga dei vincoli e delle penali rischia anzi di diventare un rimedio peggiore del male (l’allarme lanciato dall’Inps). In tutta l’area del lavoro indipendente a basse garanzie le cose poi non cambierebbero di una virgola.
Siamo dunque condannati a un destino di insicurezza «indegna»? No, ai giovani si possono offrire prospettive di vita molto meno fosche e vulnerabili di quelle attuali. Le dighe alla precarietà vanno tuttavia costruite altrove. È la sfera del welfare che deve farsi carico di questo problema. Lo stato sociale è nato per fornire sicurezza di fronte ai bisogni dei lavoratori/cittadini. Nel tempo ha perso adattabilità, rimanendo ancorato al catalogo dei rischi tipici della società industriale fordista. La sfida è oggi quella di rimettere le politiche sociali in sintonia con l’economia e il mercato del lavoro dell’era post-industriale.
Proviamo a immaginare un giovane con un contratto «precario» che possa contare su un pacchetto di prestazioni e servizi slegati dal posto di lavoro: un flusso di reddito calibrato sulle sue esigenze familiari (anche tramite crediti d’imposta), garanzie di formazione e aggiornamento professionale gratuiti, sostegni efficaci per l’inserimento o la ricollocazione lavorativa, congedi pagati in caso di malattia o maternità/paternità, assegni universali che assorbono gran parte dei costi dei figli e accesso gratuito ai nidi d’infanzia. Aggiungiamo la disponibilità di abitazioni nell’edilizia pubblica e di sussidi per l’affitto, nonché un sistema di «finanza inclusiva» che – tenendo conto del pacchetto di prestazioni garantite dallo Stato – fornisca opportunità per prestiti e anticipi. Pensiamo, ancora, a una rete di servizi alle persone, con agevolazioni fiscali, che faciliti la conciliazione vita-lavoro e la mobilità territoriale. In un simile contesto i giovani sarebbero ancora schiacciati o paralizzati dall’insicurezza? Quasi sicuramente no.
Un welfare di questo tipo esiste già in alcuni Paesi. Non sto parlando solo della Scandinavia. Molte di queste misure sono già realtà in Paesi come la Francia, l’Olanda e in parte anche la Germania. Lì la quota di contratti a termine è più o meno pari a quella italiana. Ma gli effetti negativi della precarietà lavorativa risultano molto attutiti. È questa la strada maestra contro l’insicurezza. Il nuovo modello di welfare deve slegarsi in larga parte dal rapporto di lavoro e dal finanziamento contributivo. Nel nostro Paese la sfida è molto difficile: abbiamo un welfare ancora fortemente «lavoristico» e vincoli di bilancio molto stringenti. Ma ci sono margini di manovra, soprattutto tramite ambiziose strategie di riordino dell’esistente: dal coacervo di prestazioni assistenziali alla montagna delle detrazioni fiscali; da una maggiore partecipazione al costo dei servizi da parte dei ceti benestanti all’uso smart dell’elevato stock di risparmio privato. Il «reddito di cittadinanza», se ben disegnato, può diventare un tassello di questo progetto. Del tutto fuori linea sarebbe invece qualsiasi operazione di riforma delle pensioni su larga scala, al di là di alcune calibrature ai margini.
Il mercato del lavoro di ieri non tornerà; quello di domani è caratterizzato da rischi e opportunità molto diversi dal passato. Ci troviamo di fronte a una transizione epocale, la sfida riguarda tutti, non solo le imprese: è in gioco il ridisegno della cittadinanza sociale. Si tratta di un grosso sforzo. Che va orchestrato dalla politica, con un’ottica lungimirante e responsabile.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 21 luglio 2018 e qui riprodotto previo consenso dell’autore