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Il lavoro, prima ancora che un diritto, è certamente un bisogno insopprimibile della persona. È il bisogno che l’uomo avverte di trasformare la realtà di cui è parte e, così agendo, di produrre senso e significato per se stesso. Riconoscere che quello del lavoro è soprattutto un bisogno fondamentale è decisivo tanto quanto la sua affermazione come diritto. E ciò per la semplice ragione che, come la storia insegna, i diritti purtroppo possono essere sospesi o addirittura negati; i bisogni, se fondamentali, no; i bisogni come reciprocità, fraternità, libertà, amore, non possono essere infatti rivendicati come diritti. Piuttosto, essi sono espressi come pre-requisiti di ogni ordine sociale. (Ignatieff 1986).

L’esito di ciò ci fa capire come il lavoro non è solamente ciò che assicura una remunerazione equa a chi lo ha svolto, ma anche quello che, come detto in precedenza, corrisponde al bisogno di autorealizzazione della persona che agisce e perciò che è in grado di dare pieno sviluppo alle sue capacità. “In quanto attività basicamente trasformativa, il lavoro interviene sia sulla persona sia sulla società; cioè sia sul soggetto sia sul suo oggetto. Questi due esiti, che scaturiscono in modo congiunto dall’attività lavorativa, definiscono la cifra morale del lavoro” (Zamagni). Proprio perché il lavoro è trasformativo della persona, il processo attraverso il quale vengono prodotti beni e servizi acquista valenza morale, non è qualcosa di assiologicamente neutrale.  In altri termini, il luogo di lavoro non è semplicemente il luogo in cui certi input vengono trasformati in output, le relazioni che si attivano non sono solo processi e regole misurate da risultati: il lavoro è la modalità con cui si forma (o si trasforma) il carattere del lavoratore (Alfred Marshall lo aveva anticipato già alla fine dell’Ottocento).

Serve quindi il coraggio, oltre che l’intelligenza, di andare oltre il modello di organizzazione del lavoro pensato all’epoca della seconda rivoluzione industriale
.

Occorre superare un modello centrato sul postulato della rigida divisione e specializzazione fra chi dirige e chi esegue; tra chi è autorizzato a pensare e chi è addetto a mansioni routinarie e alienanti. Non si fa fatica a comprendere come l’incapacità della politica e di molte imprese a comprendere il portato di questo passaggio,  sia all’origine dell’impossibilità di realizzare la libertà del lavoro e quindi a favorire la generazione di lavoro.  Quest’ultima, infatti, non è compatibile con nessuno dei due principali schemi organizzativi per gestire il processo lavorativo. Né con quella che idealizza l’organizzazione d’impresa come se fosse un microcosmo basato sulla logica meritocratica; né con quello della gerarchia, basata su funzioni e incentivi spesso strumentali.

Un’attività lavorativa
 è in grado di fare la differenza,  quando riesce ed è messa nella condizione di far emergere la motivazione intrinseca della persona che la compie. E’ noto  infatti, che la qualità che un individuo può esprimere nel suo lavoro è di due tipi: codificata e tacita. La prima è la qualità che può essere accertata, sulla base di protocolli e codici previamente fissati, anche da una parte terza che può sanzionare, se del caso, comportamenti devianti o opportunistici. Tacita, invece, è la qualità di una prestazione lavorativa che non è verificabile da parti terze. Ora, mentre per ottenere un’elevata qualità codificata si può intervenire con adeguati schemi di incentivo (monetari o non), per conseguire livelli elevati di qualità tacita non c’è altra via che quella di far leva sulla motivazione intrinseca del lavoratore. 

Ecco perchè la motivazione
 diventa la chiave principale per la generazione di valore; le conoscenze tacite assumono così  il ruolo di risorsa più rilevante dentro un processo e da esse derivano le capacità di innovare.

La creazione di valore ha perciò bisogno di persone, relazioni e significati. 

Dobbiamo cessare di separare dissennatamente la dimensione soggettiva e la dimensione oggettiva del lavoro; 
è necessario costruire occasioni concrete di libertà e la forma organizzativa verso cui tendere forse è quella che, come diceva prima Olivetti e poi Mintzberg, vede l’impresa come una “comunità” (Mintzberg 2009).

Riferimenti

Ignatieff M. (1986), 
I bisogni degli altri, Bologna, Il Mulino
Mintzberg (2009), Rebuilding Companies as CommunitiesHarvard Business Review, Agosto 2009
Venturi P. e D’Elia A. (2017),
 Fà il lavoro giustoChe Fare
Venturi P. e Piangerelli L. (2017), La sostanza del modello organizzativoChe Fare
Zamagni S. (2015)Giustizia Sociale, lavoro e bene comune, AICCON
Zamagni S. (2016), Libertà del lavoro e giustizia del lavoro, AICCON 
Questo articolo è stato pubblicato su Tempi Ibridi, blog curato da Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, con cui Percorsi di secondo welfare ha deciso di “contaminarsi”.