Il tirocinio sembra essere diventato ormai la modalità normale di accesso al mercato del lavoro da parte soprattutto degli under 30, e i numeri parlano chiaro. Tra il 2012 e il 2016 l’aumento è stato dell’80%, passando da 185.000 tirocini attivati ad oltre 300.000, e le previsioni per il 2017 sembrano indicare un’ulteriore crescita. Nello stesso arco di tempo la durata media è passata da 4,2 a 5,5 mesi, dirigendosi verso una durata ormai standard di 6 mesi per ciascun tirocinio. Ma questo non significa che un giovane si troverà assunto alla fine di questo semestre, questo accade in media per un tirocinante su tre, percentuale che aumenta con il passare del tempo ma che non supera mai, neanche dopo un ulteriore semestre, il 40%.
È bene ricordare che il tirocinio non è un rapporto di lavoro, come spesso si tende a credere, e in quanto tale non prevede tutte le tutele previste dai contratti, prima tra tutte il pagamento dei contributi previdenziali. Secondo Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi, però, lo strumento del tirocinio non andrebbe “demonizzato”: perché ciò che va criticato e denunciato è lo snaturamento di quello che è stato pensato dal legislatore come un importante e moderno metodo formativo e pedagogico e non certo come un contratto di inserimento al lavoro.
Per rimettere il tirocinio al suo posto basterebbe ripartire dal lavoro e dai giovani stessi, considerandoli nel capitolo degli investimenti, e non solo in quello dei costi.
Il tirocinio dei giovani, ponte da raddrizzare
Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi, Bollettino ADAPT, 24 maggio 2018