A distanza di pochi mesi da un dibattito praticamente identico, seppure innescato da statistiche diverse, anche nella scorsa settimana si è tornato a parlare delle (per alcuni discutibili) scelte universitarie dei giovani italiani, degli scarsi esiti occupazionali dei percorsi di laurea preferiti, dei preoccupanti tassi di abbandono.
Le recenti comunicazioni di Almalaurea hanno provocato molti addetti ai lavori a riflettere sulla cronica distanza tra università e mercato del lavoro. E ancora una volta il dibattito si è polarizzato tra coloro che vorrebbero una università (soprattutto) funzionale all’ingresso nel mondo del lavoro e coloro che, al contrario, suggeriscono di difendere l’università (innanzitutto) come occasione di formazione del pensiero critico e della capacità di giudizio, da non piegarsi ai bisogni della “produzione”.
È possibile spiegare il dato sullo scarso interesse che i giovani dimostrano di avere verso l’università concentrandosi sulla funzione degli studi terziari accennate in precedenza: quella incentrata sul placement – cioè riguardante il rapporto tra scuola e mondo del lavoro – e quella di matrice “culturale”. In altre parole: i ragazzi si allontanano perché non capiscono a cosa serva l’università, a cosa servano i corsi che stanno frequentando, cosa c’entrino con la loro vita; e, purtroppo, non trovano nessuno che glielo spieghi.
Repetita iuvant: non è colpa dei giovani se non si iscrivono all’università
Emmanuele Massagli, Bollettino Adapt, 20 settembre 2017