Qualche giorno addietro è apparso un interessante contributo di Geoff Mulgan sulla Teoria del Cambiamento (ToC), uno degli strumenti di progettazione e valutazione che ha attirato maggiore attenzione negli ultimi anni. La tesi di Mulgan si dipana lungo un paradosso: la conoscenza si manifesta spesso in forma fenomenologica, casuale, spuntando talvolta sotto ad un cavolo piuttosto che all’interno di accoglienti impianti teorici. La storia delle scoperte è costellata da eventi causali, o, almeno così, una certa aneddotica popolare tende a rappresentare alcune delle più dirompenti innovazioni scientifiche. Pensiamo al bagno da cui Archimede, come riportato da Vitruvio, uscì urlando “Eureka”, alla mela di Newton da cui partirà la teorizzazione della gravità, oppure alla penicillina scoperta da Fleming grazie ad una piastrina conservata per errore più del dovuto. Fleming raccontò che il giorno della scoperta si alzò non immaginando che quella mattina avrebbe rivoluzionato la storia della medicina, con la scoperta del primo antibiotico.
Da Thomas Kuhn in avanti, il metodo scientifico e la teoria, che apparivano bastioni inviolabili della Ragione, sono stati oggetti di un processo critico che ne ha progressivamente indebolito le fondamenta. La teoria scientifica è figlia del consenso che si genera in seno alla comunità degli scienziati, generando un meccanismo attraverso il quale un paradigma si afferma, spodestando il paradigma precedente, giunto ad una crisi di legittimità.
E se così fosse, quale senso avrebbe parlare di teoria del cambiamento? In primo luogo, credo sia opportuno riflettere sull’uso della nozione “teoria” rispetto alla ToC. A mio avviso, nell’utilizzare “teoria” non si fa riferimento ad un impianto concettuale con pretese totalizzanti, quanto piuttosto ad uno strumento analitico in grado di ridurre la complessità di un intervento sociale, affinché un’organizzazione possa comprendere l’implicazione delle sue attività.
Si tratta di un teoria “minore”, talvolta imperfetta, tutt’altro che definitiva. Eppure, nonostante questi limiti, la Teoria del Cambiamento rappresenta un prezioso strumento per comprendere, apprendere e migliorare i nostri interventi ed essere più efficaci nel rispondere ai bisogni sociali. Al di là della provocazione intellettuale, Mulgan ha ragione su un aspetto, ovvero evitare che gli strumenti siano oggetto di feticizzazione, poiché il processo di istituzionalizzazione di una pratica può produrre delle distorsioni profonde tali da renderla un esercizio vuoto, solo formale.
E allora, in attesa che un nuovo paradigma si affacci a rivoluzionare la progettazione, proviamo a disegnare le nostre “Teorie del Cambiamento”, consci dei limiti della metodologia, ma consapevoli del fatto che nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove andare.