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La Federazione Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità (FAND) nasce nel 1997 dall’unione di alcune delle storiche associazioni di rappresentanza delle persone con disabilità operative in Italia dal Secondo Dopoguerra e riconosciute come enti pubblici o enti morali. Queste associazioni sono l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili (ANMIC), l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro (ANMIL), l’Ente Nazionale Sordi (ENS), l’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti (UICI) e l’Unione Nazionale Mutilati per Servizio (UNMS), a cui nel 2000 si sono aggiunte l’Associazione Nazionale Guida Legislazioni Andicappati Trasporti (ANGLAT) e l’Associazione per la Ricerca sulla Psicosi e l’Autismo (ARPA). In questo articolo approfondiamo lo sviluppo delle politiche per la disabilità in Italia con Nazaro Pagano, presidente ANMIC e vicepresidente FAND.


La FAND è una realtà presente in Italia da molto tempo, protagonista di diverse fasi dell’evoluzione del sistema di welfare italiano. Qual è il punto di vista dell’organizzazione sulle trasformazioni nelle politiche per la disabilità in Italia?

Siamo passati da una prima fase, quella del secondo dopoguerra, in cui c’era un’assistenza mutualistica, basata su interventi sporadici. Poi verso gli anni ’60, con il boom economico, la nostra società si è evoluta e quindi le famiglie con disabilità, acquisendo maggiore consapevolezza, hanno cominciato a rendere maggiormente note le proprie esigenze; prima era raro che si parlasse della disabilità fuori casa. Si è quindi iniziato a vedere la disabilità non come un fatto individuale del singolo cittadino ma come un elemento complessivo, come una condizione con cui diverse migliaia o milioni di cittadini si trovavano a dover convivere.

Di conseguenza si è evoluta anche la nostra legislazione. Proprio negli anni ’60 abbiamo avuto le prime leggi, come la 1005/68 che ha istituito le prime provvidenze economiche in favore dell’invalido civile. Poi negli anni ’90 abbiamo avuto la 68/1999, la 104/1992, oltre a tutta una serie di leggi che sono state di fondamentale importanza. Poi nel 2000 è arrivata la 328.

In generale si sviluppato un quadro normativo che andava nella direzione di voler tutelare, salvaguardare o anche integrare il cittadino disabile. Purtroppo molte di queste leggi si sono accavallate l’una sull’altra e l’applicazione, come per la 68/1999, è stata parziale o, come la 328/2000, un vero e proprio fallimento. L’evoluzione dalla normativa è stata sicuramente positiva ma spesso è venuta a mancare l’applicazione delle stesse leggi.
 

Uno degli aspetti più significativi dell’evoluzione delle politiche per la disabilità è il passaggio dal modello medico che vedeva la disabilità come una patologia, quindi un problema dell’individuo, al modello sociale che vede la disabilità come una relazione tra una persona con certe caratteristiche e una società con una certa idea di normalità: secondo lei in Italia come è avvenuto?

Questo passaggio c’è stato anche se non si è completamente realizzato. Ad esempio oggi l’accertamento dell’invalidità civile è ancora basato sulla medicina legale e strumenti come tabelle e calcoli di percentuali, mentre viceversa noi vorremmo che il disabile fosse inquadrato in un modello sociale diverso in cui l’accertamento dovrebbe essere il momento in cui viene definito il progetto di vita.

Purtroppo in Italia vi è una forte cultura della medicalizzazione e quindi capiamo bene che c’è una difficoltà oggettiva anche se tanto è stato fatto. Speriamo ancora che questo passaggio possa avvenire realmente, soprattutto in ottemperanza e in ossequio alla Convenzione ONU che si basa su questo modello.


Sotto alcuni aspetti c’è già una visione sociale della disabilità, almeno da quello che lei ha detto. Questi aspetti quali sono? Quali sono gli obiettivi raggiunti?

Abbiamo raggiunto obiettivi importanti, come l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità: prima il bambino era considerato qualcosa da curare, adesso è qualche cosa da includere nella società, da valorizzare. Il modello dell’inclusione lavorativa per noi è importantissimo ma anche la fruibilità degli spazi, l’accesso al tempo libero, al turismo, che fino agli anni ’70, ’80 non era proprio considerato se non da alcune poche famiglie che avevano la possibilità di accedere a strutture particolarmente attrezzate.

La FAND partecipa alle attività dell’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità (organismo istituito dalla legge 18/2009 e collocato presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali; ha funzioni consultive in merito alle politiche per la disabilità); come si sviluppa tale partecipazione? Può indicare alcuni dei risultati raggiunti?

La Fand e le associazioni che aderiscono alla Fand fanno parte dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, quindi partecipiamo attivamente all’elaborazione del Piano Biennale di Azione (nda il Programma di Azione Biennale per la Promozione dei Diritti e l’Integrazione delle Persone con Disabilità in attuazione della legislazione nazionale e internazionale) e ai tavoli presso tutte le istituzioni.

Abbiamo contribuito in maniera più che determinante al Piano e speriamo di contribuire anche alla sua realizzazione perché adesso siamo già alla stesura del terzo Piano ma dobbiamo ancora applicare gli altri. Abbiamo poi partecipato attivamente non senza assumere una posizione critica alla Conferenza Nazionale sulla Disabilità che si è svolta lo scorso anno a Firenze. Abbiamo mosso dei rilievi al governo di allora per la poca concretezza alle azioni, alle buone prassi, che bisognava mettere in atto, privilegiando, chiedo scusa, lo dissi a Firenze, lo dico adesso, delle passerelle mediatiche per poter rappresentare l’azione del governo.

Recentemente è stata approvata la legge 112/2016 “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare”, la cosiddetta “legge sul dopo di noi”. Come si pone la FAND nei confronti di questo provvedimento?

La legge è una buona legge ma crediamo che prima del “dopo di noi” dovremmo pensare al “durante noi”, cosa che questa legge non fa. Secondo noi non era necessaria una nuova normativa dato che la legge 328/2000, se adeguata e implementata, poteva essere applicata sia al “durante noi” sia al “dopo di noi”. Purtroppo si è voluto fare un’altra legge e al momento abbiamo una legge settoriale, che va a riguardare soltanto il “dopo di noi”. Come ho detto però dobbiamo pensare anzitutto al “durante noi” perché oggi abbiamo all’interno delle famiglie, genitori anziani che non riescono più ad assistere e supportare figli con una grave disabilità, creando così situazioni di estremo disagio per i nuclei famigliari. Inoltre lasciatemi dire che nel nostro Paese si fanno tante belle leggi, semplicemente per una tenuta d’immagine, senza però poi stanziare fondi. Oggi non possiamo pensare ad una assistenza di natura solamente privatistica per la fase del “durante noi”, altrimenti succederà che chi ha la possibilità si pagherà l’assistenza, chi non ce l’ha rischia di rimanere senza, cosa che in Italia già avviene in alcuni contesti territoriali a causa della mancata applicazione della legge 328/2000.

Quali sono state le proposte della FAND durante le audizioni parlamentari che hanno portato alla stesura della Legge sul dopo di noi?

Le nostre proposte erano molto semplici e lineari: tenere in considerazione il nucleo famigliare e tenere in considerazione il “durante noi”. Entrambe queste sollecitazioni non sono state recepite.

Un’altra critica che abbiamo espresso è sul trust. Nel nostro ordinamento ci sono altre forme di tutela per il cittadino privo di sostegno famigliare, come l’amministratore di sostegno, che potevano essere opportunamente aggiornate per renderle più permeanti e permeabili alle esigenze di chi non ha sostegno famigliare.

Non era necessario ricorrere al trust, uno strumento secondo me che non si addice troppo alle esigenze dei cittadini disabili. Il trust serve per i grandi patrimoni e non per i piccoli patrimoni. E in questo momento i cittadini disabili con grandi patrimoni sono più unici che rari. Inoltre non vorrei che intorno a ciò si sviluppasse un nuovo filone di commercializzazione di alcune professioni. Abbiamo inoltre chiesto che i fondi previsti fossero certi e continuativi.

Secondo l’esperienza e le competenze sviluppate dalla FAND come deve essere gestito un servizio per il “durante e dopo di noi”? Sono già state sviluppate diverse tipologie di servizi come i percorsi per la vita indipendente, le convivenze, i gruppi appartamento, le case famiglia, le palestre per l’autonomia o istituti come le fondazioni di partecipazione…

È vero che stanno emergendo tante esperienze, ma bisogna considerare che queste sono a macchia di leopardo, sono di fatto assenti al Sud e inoltre sono sempre poche rispetto ai tre milioni e ottocentomila disabili che abbiamo in Italia.

Come vogliamo risolvere il problema? Molto concretamente ci vogliono le risorse e i finanziamenti ai servizi perché questi possano svilupparsi e creare i presupposti per ottemperare a quello che la legge si propone. Dobbiamo capire se quello che stiamo costruendo avrà una durata nel futuro. Non vorrei che poi, come tutte le cose in Italia, possano rendersi evanescenti.

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha varato le linee guida per la vita indipendente. Secondo lei hanno dato buoni risultati? Hanno inciso sullo sviluppo di servizi per il “durante e dopo di noi”?

Non siamo ancora riusciti a prendere visione dei risultati ma posso dire che quando parlo del “durante noi” parlo anche di “vita indipendente”. Anche se fosse nelle condizioni psicofisiche per farlo, un cittadino disabile come potrebbe vivere la “vita indipendente” con 270 euro mensili di pensione d’invalidità e 520 euro di accompagnamento? Questa è la “vita indipendente”? Un cittadino disabile che a causa dei pregiudizi non trova lavoro non può vivere con quella cifra e i servizi che lo Stato dovrebbe garantire non vengono garantiti. Quando manca alla base lo strumento essenziale, cioè le risorse finanziarie, la vita indipendente è un fallimento.


Negli ultimi anni nel sistema di welfare italiano hanno acquisito rilevanza attori privati sia non profit, come il terzo settore e le fondazioni di origine bancaria, sia for profit, come le imprese o le assicurazioni. Secondo lei quale può essere il contributo di questi soggetti nelle politiche per la disabilità?

Questa è la domanda più difficile. Se queste organizzazioni si approcciano alla disabilità con lo spirito più nobile di questo mondo può essere un vantaggio, ma se queste organizzazioni si approcciano utilizzandola solo come un mezzo per creare profitto, questo lo ritengo non giusto e nemmeno condivisibile. Noi crediamo che ci debba essere un modello misto tra pubblico e privato che coinvolga il terzo settore ma, ripeto, se ci si approccia con la mentalità del profitto e del mercato non lo vedo di buon’occhio. Se viceversa è un modo per integrare le funzioni dello Stato in spirito di sussidiarietà, possiamo fare un’attenta valutazione.