6 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Negli ultimi due anni l’UE ha registrato un flusso senza precedenti di richiedenti protezione internazionale. Oltre 1.8 milioni di domande d’asilo sono state presentate nel 2015 e nella prima metà del 2016. Il rapporto "Employment and Social Development in Europe 2016" pubblicato a dicembre 2016 dalla Commissione Europea, ha dedicato un intero capitolo all’integrazione lavorativa dei rifugiati, evidenziando come questi rappresentino uno dei gruppi più vulnerabili in termini di integrazione nel mercato del lavoro (dato evidenziato anche dal rapporto "Labour market performance of refugees in the EU"), e proponendo una serie di riflessioni utili a guidare le politiche e i programmi di integrazione degli Stati Membri.

L’integrazione lavorativa dei rifugiati: la situazione

Il rapporto evidenzia come in UE il tasso di occupazione dei rifugiati sia attualmente al di sotto di quello di tutti gli altri migranti, oltre che dei nativi, il che li rende più esposti alla povertà e all’esclusione sociale. Solo i migranti per motivi familiari presentano indicatori di esclusione simili ai rifugiati, elemento che suggerisce alle politiche di rivolgere la propria attenzione non solo ai primi arrivati, ma a tutti i familiari che negli anni a venire si ricongiungeranno.

Le donne rifugiate affrontano spesso difficoltà maggiori e persistenti nell’integrazione nel mercato del lavoro, condizione che le rende bisognose di un’attenzione specifica delle politiche. Quasi la metà di loro possiede un basso, se non inesistente, livello di istruzione, e il loro livello di occupazione è di gran lunga il più basso rispetto a quello registrato per tutti gli altri gruppi. Il rapporto evidenzia, anche, come le donne con un alto livello di istruzione abbiano un tasso disoccupazione più alto rispetto alle altre donne provenienti da paesi terzi e agli uomini rifugiati.

L’integrazione dei rifugiati migliora con la loro permanenza nel paese ospitante, ma si stima che occorreranno più di 15-19 anni perché i rifugiati possano raggiungere una posizione paritaria rispetto a cittadini autoctoni in termini di accesso al mercato del lavoro. L’acquisizione della cittadinanza rappresenta, comunque, un passo importante nel processo di integrazione. I migranti naturalizzati tendono infatti ad avere migliori occupazioni e migliore stabilità sociale rispetto a chi non la ottiene.

L’analisi evidenzia inoltre come la possibilità per i rifugiati di inserirsi nel mercato del lavoro diminuisca sensibilmente rispetto agli altri migranti e ai nativi, se restano disoccupati o inattivi per lungo tempo.

Ridurre i tempi per l’accesso al mercato del lavoro

Se è vero che i richiedenti asilo godono dei medesimi diritti della popolazione nativa una volta che la loro domanda sia stata accettata, è vero anche che il tempo tra la proposizione della domanda e la decisione di primo grado è molto elevato in tutti i paesi. Questo fa sì che la durata delle procedure di riconoscimento d’asilo abbia un impatto negativo sul futuro tasso di occupazione dei rifugiati.

La Direttiva 2013/33/UE, recante norme sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, entrata in vigore negli stati membri a luglio 2015, stabilisce che i richiedenti asilo abbiano la possibilità di accedere al mercato del lavoro entro 9 mesi dall’avvio della procedura di riconoscimento dello status. Tuttavia il periodo varia molto tra gli stati che spesso applicano delle restrizioni. In Italia, da settembre 2015, i richiedenti asilo posso lavorare trascorsi 60 giorni dalla presentazione della domanda (anche come lavoratori autonomi).

Tabella 1. Numero di mesi dopo il quale l’accesso al mercato del lavoro è garantito ai richiedenti asilo la cui domanda è pendente
Fonte: Employment and Social Development in Europe 2016, p. 128.

Ridurre il tempo necessario ai rifugiati per integrarsi nel mercato del lavoro dovrebbe, quindi, rappresentare una delle priorità per le politiche di accoglienza e integrazione.

Il livello di istruzione e la conoscenza della lingua

Come gli altri migranti, la maggior parte dei rifugiati lavora a tempo pieno e ottiene un’occupazione più stabile con il trascorrere del tempo, ma è anche più propensa ad accettare posti di lavoro meno qualificati rispetto alle proprie competenze e ai propri titoli.

La difficoltà a riconoscere i titoli di studio acquisiti nel paese d’origine costituisce uno degli ostacoli principali. La grande differenza tra i sistemi di istruzione e formazione e la mancanza della documentazione necessaria a compiere la valutazione, rendono molto complessa la valorizzazione e la capitalizzazione delle loro competenze.

Tuttavia, quasi la metà dei rifugiati possiede un basso livello di istruzione, e questo rappresenta un ostacolo significativo per l’integrazione nel mercato del lavoro. Un’istruzione formale superiore porta a tassi di occupazione più elevati e a una transizione più facile dalla disoccupazione o dall’inattività all’occupazione, migliorando la crescita della produttività, portando a salari medi più alti, e a una crescita economica più elevata.

La sola educazione formale non è però condizione sufficiente a una proficua integrazione dei rifugiati nel mercato del lavoro. L’analisi dimostra come le competenze linguistiche e/o la conoscenza del paese ospitante siano altrettanto importanti. La conoscenza della lingua del paese ospitante determina in modo significativo l’inserimento nel mercato del lavoro.


Grafico 1. Tasso di occupazione dei rifugiati, a seconda della conoscenza della lingua del paese ospitante, totale dell’UE (Germania esclusa), 15-64, 2014
Fonte: Employment and Social Development in Europe 2016, p. 121.

I rifugiati le cui abilità linguistiche sono scarse o inesistenti all’arrivo, migliorano significativamente le loro possibilità di occupazione acquisendo più solide abilità linguistiche. Rafforzare tempestivamente le competenze linguistiche dei rifugiati può rappresentare uno degli strumenti più efficaci per consentire loro di capitalizzare pienamente le competenze formali e non formali acquisite nei paesi d’origine.

Nonostante nella maggior parte dei paesi membri vengano offerti corsi di lingua, il loro livello spesso non è adeguato per un uso pratico della lingua e per ottenere un lavoro. Inoltre, i risultati sull’apprendimento linguistico dei rifugiati rispetto agli altri migranti sembrano essere più bassi. Ciò può essere causato dalla bassa scolarità, dai tassi più alti di abbandono dei corsi (dovuti a una situazione socio-economica più vulnerabile), sia dalla loro situazione personale (tra cui le sindromi di stress post-traumatico di cui spesso soffrono).


Il ruolo delle reti parentali e di prossimità

Il rapporto evidenzia anche come più di un terzo dei rifugiati che hanno ottenuto un lavoro negli ultimi 5 anni lo hanno fatto grazie a reti parentali o di prossimità. Ciò indica la grande importanza per la loro integrazione sociale delle reti locali. Il mentoring, gli sponsor privati, il contatto con le proprie comunità presenti sul territorio rappresentano alcuni degli strumenti che possono essere attivati per agevolare i rifugiati nell’inserimento lavorativo.


Grafico 2. Metodi più utilizzati per trovare un lavoro, per motivi di migrazione, valori totali UE, 2014
Fonte: Employment and Social Development in Europe 2016, p. 129.

Integrazione: supporto sociale e sensibilizzazione

Un altro aspetto fondamentale per facilitare l’integrazione nei paesi di accoglienza è rappresentato dal supporto sociale. L’accesso alla casa, all’assistenza sanitaria e l’accompagnamento all’inserimento scolastico dei bambini sono attività che quasi tutti gli stati membri prevedono nei programmi di accoglienza. Tuttavia, in molti paesi l’accesso all’abitazione resta molto difficile, lo screening sulla salute mentale non è condotto in modo sistematico (lasciando così molte persone affette da sindromi post traumatiche senza trattamento e sostegno), le misure conciliative per agevolare l’accesso alla formazione e al lavoro non sempre vengono messe a disposizione. Inoltre, sovente, in molti paesi i sostegni all’integrazione cessano nel momento in cui la persona trova un’occupazione, nonostante abbia ancora bisogno di un accompagnamento sociale.

La Commissione europea e gli stati membri negli ultimi anni hanno adottato diverse misure per gestire i sistemi di accoglienza dei richiedenti asilo e per strutturare programmi di integrazione sociale e lavorativa di chi riceve la protezione. L’efficacia di tutti questi interventi resterà però limitata, se non saranno accompagnati da una politica di sensibilizzazione sugli effetti positivi delle migrazioni e di lotta agli atteggiamenti discriminanti, ancora molto diffusi nella società europea. La paura e la disinformazione rappresentano delle grandi minacce per le politiche di accoglienza e la possibilità per i migranti di integrarsi con successo.

Il rapporto evidenzia, infatti, come l’origine etnica, la religione e l’appartenenza sociale costituiscono ancora degli ostacoli nel trovare lavoro. Sebbene l’opinione pubblica europea rispetto all’immigrazione e al suo impatto sembri essere divenuta più positiva negli ultimi anni, rimane tuttavia una delle principali preoccupazioni di una grande percentuale dei cittadini europei (Heath e Richards 2016). Prioritario resterà, dunque, lavorare sulla consapevolezza pubblica rispetto ai benefici della migrazione.

Un’accoglienza e un’integrazione di successo permetteranno all’UE di beneficiare del potenziale umano dei rifugiati e della loro forte motivazione a diventare membri attivi della società europea. La creazione di sistemi efficaci di accoglienza dei rifugiati assicurerà sostegno non solo a loro, ma a tutti i gruppi vulnerabili, garantendo una reale lotta alla povertà e implementando la coesione sociale.

Riferimenti

Heath, A. and Richards, L. (2016), How do European differ in their attitudes to immigration