"Prof non credo di farcela, non ho il profilo giusto". Così si lamentava una studentessa dopo aver letto un bando per la selezione di “animatori di comunità” nell’ambito di un importante progetto di rigenerazione urbana.
In effetti come darle torto scorrendo il lungo elenco di funzioni attese: organizzazione di attività di informazione e sensibilizzazione, stakeholder engagement, gestione di una piattaforma di partecipazione digitale, apertura e presidio di punti informativi territoriali, rendicontazione alle istituzioni pubbliche e filantropiche, tutoraggio e sostegno di progettualità realizzate nell’ambito dei processi di rigenerazione, gestione delle risorse materiali e delle call for ideas e “ogni altra attività complementare ed integrativa che il soggetto gestore individuerà per l’accompagnamento al progetto nel suo complesso”.
Anche per un lavoratore sociale con buona esperienza non è proprio una passeggiata aggiornare il curriculum per rispondere a questo genere di chiamate. Eppure le richieste di figure di questo tipo si moltiplicano, naturalmente con denominazioni diverse – community manager, host, operatori di comunità, ecc. – alle quali corrispondono declinazioni diverse, ma di competenze simili che, a grandi linee, si possono raggruppare in tre aree: "lavoro di community organizing", "capacità gestionale di un luogo" (sia fisco che virtuale) e "gestione del cambiamento".
Per questo più che un bando – che presuppone l’esistenza di un profilo da mansionario – ai community manager servirebbe una scuola. Un percorso che aiuti persone diverse – operatori sociali e volontari certo, ma anche lavoratori e imprenditori del commercio di prossimità e di altri settori del terziario sociale – a “tirar fuori” competenze soft che spesso vengono esercitate in modo informale e discontinuo.
Cercasi manager di comunità
Flaviano Zandonai, La Nuvola del Lavoro, 18 marzo 2017