Nella lunga intervista pubblicata sul Corriere del 9 luglio, Jürgen Habermas ha severamente rimproverato la politica europea della Germania, in particolare la incapacità progettuale, l’appiattimento sullo status quo (“un frenetico stare fermi”), l’ostinata difesa di una stabilità fiscale basata su regole rigide, e soprattutto il perseguimento sempre più sfacciato degli interessi nazionali. In patria il grande filosofo è una voce poco ascoltata. Nel dibattito internazionale, sia europeo che americano, le sue tesi sono però largamente condivise. Quali fattori hanno spinto la Germania su questa strada, che rischia di minare l’intera costruzione europea?
Vi sono innanzitutto fattori oggettivi. La grande crisi dell’euro ha reso la Germania indispensabile per qualsiasi soluzione, consegnandole tutte le briscole del gioco sugli aiuti finanziari. Berlino non ha mai formalmente «imposto» il proprio volere agli altri, quasi tutte le decisioni sono state adottate entro i solchi procedurali previsti dai Trattati. Ma a tutti (e in particolare ai Paesi bisognosi di prestiti) era ben chiaro che un euro tedesco alle condizioni tedesche era comunque meglio di nessun euro. È forse la prima volta nella storia dell’Europa moderna che un Paese ha esercitato così tanto potere senza essere anche il più forte sul piano militare. In contesti altamente integrati sotto il profilo economico-monetario, oggi le risorse remunerative (quelle che consentono di erogare premi e sanzioni economiche) sono ormai più rilevanti di quelle coercitive. L’euro-crisi ha insomma ridato alla Germania il ruolo di grande potenza europea. Ai tempi dell’unificazione e del Trattato di Maastricht, Helmut Kohl aveva potuto sacrificare alcuni interessi nazionali perché poteva contare su un radicato e persistente consenso permissivo da parte degli elettori, in parte un lascito dei complessi di colpa per il passato nazista. Gli effetti sempre più diffusi, incisivi e visibili dell’Uem hanno tuttavia indotto l’opinione pubblica tedesca a ritirare il consenso permissivo e a valutare le politiche europee dei propri governi in maniera meno emotiva e molto più strumentale. Il ricambio generazionale ha poi gradualmente annacquato i sensi di colpa e generato una crescente voglia di «normalità politica», persino qualche «fantasia di potere» (l’espressione è di Habermas) in direzione isolazionista o verso progetti di una Europa tedesca. In queste dinamiche hanno giocato un ruolo anche le preoccupazioni che gli altri Paesi UE volessero scaricare i costi dei propri aggiustamenti fiscali sulle finanze tedesche e che dunque la Germania diventasse lo Zahlmeister d’Europa, il grande pagatore.
Oltre a questi elementi di contesto, hanno però giocato un ruolo molto importante anche gli orientamenti e le tattiche della leadership. Dall’inizio dell’euro-crisi in avanti, Angela Merkel ha svolto il ruolo di paladina del paradigma dell’austerità. È stata una delle principali responsabili della svolta intergovernativa sul piano politico e ha costantemente levato gli scudi contro i tentativi di «socializzare» l’agenda Ue. La responsabilità (in negativo) della Cancelliera risale all’ottobre del 2008, quando ella rifiutò categoricamente la proposta della Francia, sostenuta dall’Italia e da altri Paesi, di costituire un fondo anti-crisi Ue. Prima di allora, Berlino aveva sempre assecondato la logica dell’integrazione: le divergenze fra gli interessi nazionali andavano ricomposti all’interno delle strutture sovranazionali. Il «no» dell’ottobre 2008 ribaltò questa impostazione. Invece di adottare una soluzione comune, la Germania optò per la (ri)nazionalizzazione delle responsabilità: ognuno per conto suo, con i compiti da fare in casa propria. Una posizione che poi è stata ribadita molte volte negli anni successivi. Forse nel 2008 la gravità della crisi e delle sue implicazioni non erano chiare, la logica pragmatica dei piccoli passi poteva sembrare come la più promettente. Ma il “frenetico stare fermi” della Merkel ha risposto in larga parte a motivazioni elettoralistiche. Nel 2009 c’erano le elezioni federali; nei due anni successivi, elezioni amministrative in alcuni Länder cruciali per la tenuta del governo; nel 2013 di nuovo le elezioni federali. Invece di guidare l’opinione pubblica, facendo leva sull’iniziale disponibilità (confermata dai sondaggi) degli elettori ad appoggiare interventi di solidarietà finanziaria verso gli altri paesi, la Cancelliera ha rincorso ella stessa lo spauracchio dello Zahlmeister –peraltro senza neutralizzare l’ascesa di Alternative für Deutschland.
Non si capirebbe appieno la strategia della Germania se – oltre ai fattori di contesto e alle convenienze politiche – non si tenesse conto di un terzo elemento: le dottrine ordoliberali, alle quali vanno imputatate la fissazione per le regole e soprattutto la resistenza di natura “morale” che Berlino oppone sistematicamente ad ogni proposta di condivisione dei rischi. Il pensiero ordoliberale non contempla alcuna forma di solidarietà istituzionalizzata. O meglio: la solidarietà è surrettiziamente ricompresa nel concetto di responsabilità, si riduce nel fare il proprio dovere e così non danneggiare gli altri. “Chi decide, risponde delle proprie azioni” (decisions and liability) è il mantra ripetuto da Schäuble nei consessi europei. Se le conseguenze di queste azioni richiedono l’aiuto di altri (le istituzioni sovranazionali o altri paesi membri), questi ultimi hanno il diritto di assumere il controllo (liability only with control).
Anche a prescindere da valutazioni etico-morali, il ragionamento ordoliberale ha un serio difetto. Non tiene conto che l’Unione monetaria è molto di più di una semplice somma di parti. Ha infatti creato una rete inestricabile di interdipendenze fra le economie dei paesi partecipanti. In molti settori è diventato difficilissimo stabilire il legame fra decisioni e conseguenze all’interno e all’esterno dei confini nazionali. Inoltre, molte decisioni di rilievo sono prese a Bruxelles ed hanno un impatto enorme (ma non omogeneo) sui vari paesi, le loro economie, le loro società, il loro welfare. Un impatto che non si può prevedere ex ante, né nei tempi né nei contenuti.
All’inizio del Novecento, un grandissimo pensatore tedesco -Max Weber- descrisse la natura e il funzionamento delle “comunità di vicinato”, caratterizzate da prossimità spaziale durevole e affinità storico-culturali (proprio come la UE). In caso di bisogno o emergenza, in tali comunità devono operare principi di “sobria fratellanza”, capaci di andare al di là della “mentalità da negoziante” che regola i rapporti fra estranei. E’ proprio la sobria fratellanza che ha ispirato alcuni dei momenti più nobili della storia europea, di cui hanno beneficiato nel tempo un po’ tutti i paesi, Germania inclusa.
La cultura tedesca è fra le più ricche e feconde d’Europa. Con Kant, ha piantato i semi fondamentali per lo sviluppo dell’universalismo e del cosmopolitismo liberali, i quali hanno oggi in Habermas il suo erede forse più insigne. In un incontro privato di qualche mese fa, nella sua bella casa su un lago bavarese, il grande filosofo mi ha confessato di provare sui tempi europei un grande senso di isolamento intellettuale nel dibattito nazionale, persino di accerchiamento. E’ un brutto segnale, per la Germania e per tutta l’Unione. La cultura della stabilità e delle regole non è certo un male in sé, ma da sola non basta, servono progetti e visioni, soprattutto dopo il Brexit. Per i fattori oggettivi sopra richiamati, Berlino è il primum movens delle dinamiche europee. Anche se nel 2017 ci sono nuove elezioni federali, Angela Merkel deve convincersi che “stare fermi” non è più un’opzione. A meno di non voler condannare la UE ad un coma prolungato e irreversibile.
Riferimenti
Michael Best and Maurizio Ferrera, Family, neighbourhood community or a partnership among strangers? A conversation on the EU, in EuVisions, 15 luglio 2016;
Thomas Biebricher (interviewed by William Callison), “Return or Revival: The Ordoliberal Legacy.” Near Futures Online 1 “Europe at a Crossroads”, marzo 2016;
Jan-Werner Müller, What do Germans think about when they think about Europe?, The London Review of Books, Vol. 34 No. 3, 9 febbraio 2012;
Jurgen Habermas (2012), Questa Europa è in crisi, Bari-Roma Laterza;
Hans Kundnani (2015), L’Europa secondo Berlino. Il paradosso della potenza tedesca, Milano, Mondadori;
Joseph Stigliz (2016), The Euro: and its Threat to the Future of Europe, London Penguin [in pubblicazione];
Claus Offe (2013), L’Europa in Trappola, Bologna, Il Mulino, 2013
Questo articolo è comparso anche su “La Lettura” del Corriere della Sera del 17 luglio 2016.