Con la legge regionale n. 18 del 10 novembre 2015 la Regione Valle d’Aosta ha istituito una misura di inclusione attiva e di sostegno al reddito che ha “lo scopo di rafforzare le politiche finalizzate al sostegno economico e all’inclusione sociale dei soggetti maggiormente esposti al rischio di marginalità (…), quali i disoccupati e i lavoratori autonomi in difficoltà economica” (articolo 1). Secondo quanto disposto dalla legge regionale, questa misura costituisce una forma di protezione sociale di ultima istanza da attivarsi quando tutti gli altri ammortizzatori sociali non sono applicabili o sono stati esauriti. Al 31 marzo 2016 (data di chiusura del bando) sono state raccolte 557 domande. Il 74% sono state presentate da persone con cittadinanza italiana; circa la metà dei richiedenti ha un’età compresa tra i 44 e i 54 anni.
Di seguito sono presentate le principali caratteristiche di tale misura, che si affianca a quelle introdotte da altre regioni italiane negli ultimi anni, mettendone in evidenza i principali punti di forza e di debolezza. Alla luce di questa nuova esperienza, l’obiettivo di questo articolo è di porre qualche domanda di carattere generale al fine di contribuire all’attuale dibattito nazionale sugli strumenti e le strategie di inclusione attiva e di contrasto alla povertà.
Le principali caratteristiche: destinatari e modalità d’erogazione
Con uno stanziamento complessivo di 1.400.000 euro, la Regione Autonoma Valle d’Aosta ha previsto l’erogazione di un trasferimento monetario (compreso fra i 450 e i 550 euro mensili) che può essere concesso per un periodo massimo di cinque mesi (prorogabile di ulteriori tre mesi). L’ottenimento del beneficio è vincolato alla sottoscrizione di un “patto di inclusione” che prevede una serie di azioni volte all’inserimento sociale e lavorativo. L’intervento, che sarà implementato fino al 31 dicembre 2018, può essere richiesto una sola volta da ciascun nucleo familiare. Si noti che sono considerati nuclei familiari anche quelli con un solo componente. Per accedere alla misura è necessario possedere i requisiti elencati nella tabella che segue.
Tabella 1. I requisiti per accedere alla misura di inclusione attiva e sostegno al reddito della Valle d’Aosta
Fonte: elaborazione da Delibera Giunta Regionale 102/2015 (articolo 3).
Il Patto di Inclusione
L’accesso ai contributi monetari è subordinato alla sottoscrizione di patto di inclusione stipulato fra il soggetto richiedente e il centro per l’impiego e/o il servizio sociale competente. Attraverso questo strumento sono stabiliti gli obiettivi di inclusione sociale, di occupabilità, di inserimento lavorativo e di riduzione dei rischi di marginalità. Il patto può vedere l’adesione, oltre che del richiedente, degli altri componenti maggiorenni del nucleo familiare quando sono previsti specifici obblighi/azioni/attività in capo a questi ultimi. Per la definizione del patto si tiene conto delle competenze, del percorso scolastico, formativo e professionale e del risultato dei colloqui tenuti con il richiedente. Nella tabella che segue sono sintetizzate le attività che possono essere contenute nel patto.
Tabella 2. Attività che possono essere contenute nel Patto di Inclusione
Fonte: elaborazione da Delibera Giunta Regionale 102/2015 (articolo 3).
La governance della misura
La Legge Regionale 18/2015 (articolo 8) ha previsto l’istituzione di un comitato tecnico di coordinamento della misura cui spettano due funzioni principali. La prima riguarda la valutazione e l’approvazione delle domande di accesso alla misura e dei relativi patti di inclusione sociale. La seconda concerne il monitoraggio degli interventi che può essere realizzato grazie alla collaborazione di tutti i soggetti pubblici e privati interessati. Secondo quanto disposto dalla normativa, il comitato è composto da: 1) due rappresentanti della struttura regionale competente in materia di politiche del lavoro e dell’impiego (di cui uno in qualità di coordinatore); 2) un rappresentante della struttura regionale competente in materia di politiche sociali; 3) un rappresentante della struttura regionale competente in materia di assistenza economica.
Punti di forza
• L’intervento prevede una soglia Isee superiore rispetto a quella fissata in altre regioni (es. Puglia) e dal Sostegno Inclusione Attiva (SIA) introdotto a livello nazionale e sperimentato in 12 comuni a partire dalla fine del 2013. Se in Valle d’Aosta l’accesso alla misura è riservato a quanti hanno un Isee inferiore a 6.000 euro, negli altri casi tale soglia scende a 3.000 euro.
• Si tratta di un intervento che prevede sia un trasferimento monetario, sia una parte volta esplicitamente all’attivazione dei beneficiari (patto di inclusione). Da questo punto di vista, la misura si pone in linea con gli interventi messi in campo a livello nazionale (SIA) e in altre regioni. Per alcuni aspetti, la misura prevista in Valle d’Aosta è anche più inclusiva rispetto alle altre esperienze. Questo è vero, in particolare, se consideriamo che si rivolge anche ai nuclei familiari con un solo componente, mentre il SIA si rivolge a nuclei in cui è presente almeno un minore.
• L’integrazione al reddito adottata in Valle d’Aosta sembra configurarsi come un sussidio di disoccupazione di natura assistenziale (di secondo livello), più che come una misura di inclusione attiva di terzo livello, ovvero di ultima istanza. Questa sua caratteristica traspare in particolare dal requisito occupazionale necessario per l’accesso al beneficio (ben un anno di attività lavorativa negli ultimi cinque), nonché dalla richiesta di essere titolari di partita Iva o di aver sottoscritto un patto di servizio con i centri per l’impiego. È vero che anche il SIA prevede il mantenimento di un qualche legame con il mercato del lavoro (almeno un componente deve avere cessato un’attività lavorativa nei 36 mesi precedenti la richiesta), ma tale requisito si presenta come più blando rispetto a quanto richiesto dalla misura attivata in Valle d’Aosta. Inoltre, la legge regionale 18/2016 si affianca ad altre misure di inclusione attiva già presenti da tempo sul territorio regionale (ad esempio i contributi sociali connessi al minimo vitale) e alle misure statali esistenti (NASPI e ASDI) o di prossima diffusione sul territorio nazionale (SIA). La nuova misura di sostegno al reddito adottata in Valle d’Aosta ha dunque lo scopo di rispondere a specifici bisogni emergenti (si pensi al tema dei lavoratori poveri o delle persone “scivolate” in una condizione di povertà per via della recente crisi economica). Se ben gestita e indirizzata, si candida a integrare e rafforzare altre forme di intervento.
Punti di debolezza
• Uno dei punti di debolezza della misura riguarda la breve durata dell’intervento, soprattutto se orientato all’inclusione di persone fortemente vulnerabili. È chiaro che ragioni di sostenibilità finanziaria spiegano questa scelta. Ciò nonostante, il problema rimane. Secondo quanto previsto dalla normativa, il periodo massimo di copertura è di cinque mesi, prorogabile di ulteriori tre mesi. Si tratta di un periodo limitato, se lo si raffronta ad altre esperienze. Il SIA ad esempio è stato sperimentato per un periodo di 12 mesi, lo stesso vale anche per le misure di inclusione attiva in Friuli Venezia Giulia che, oltre ad avere una durata prevista di 12 mesi, può anche essere rinnovato. Come emerso nel corso delle interviste che "Percorsi di Secondo Welfare" ha realizzato sulla sperimentazione del SIA, la stabilità e la durata dell’intervento sono elementi chiave per garantire il successo di misure di questo tipo. In particolare, poter contare su un’erogazione monetaria stabile nel tempo ha permesso agli utenti di dedicarsi pienamente ai progetti personalizzati e alle amministrazioni comunali di acquisire una maggiore credibilità agli occhi dei beneficiari; ciò ha favorito il consolidamento di un impegno reciproco fra utenti e amministrazione. Questo è emerso ad esempio nel caso del Comune di Bologna.
• Andrebbe chiarito il ruolo dei vari attori coinvolti direttamente o potenzialmente nella misura, in particolare gli enti locali, i centri per l’impiego, i servizi socio-sanitari e il privato sociale. Ad esempio, nel caso del Reddito di Dignità pugliese, per l’implementazione della misura è prevista la creazione di équipe multiprofessionali composte da personale dei comuni (in particolare degli ambiti territoriali) e dei centri per l’impiego. Queste équipe sono chiamate a collaborare con soggetti territoriali privati e del privato sociale che erogano servizi per le politiche attive del lavoro. Allo stesso modo, andrebbero specificate le relazioni che si pongono tra la sottoscrizione di un patto di servizio presso i centri per l’impiego, previsto come requisito per l’accesso ai benefici delle misure adottate in Valle d’Aosta, e l’obbligatorietà di sottoscrivere un patto di inclusione, eventualmente presso soggetti diversi quali i servizi sociali competenti.
• Nel testo di legge e nei regolamenti di attuazione si fa riferimento alla necessità di stabilire raccordi con la legislazione (e le iniziative di policy) avviate a livello statale. Manca però nella norma regionale e nel suo provvedimento di attuazione una più chiara strutturazione dei rapporti tra questa nuova misura regionale e quelle preesistenti e ancora in vigore a livello regionale e comunale, nonché agli interventi posti in essere dallo Stato o attraverso il cofinanziamento dei fondi europei. Questo aspetto, come diremo più in basso, appare cruciale a fronte di una possibile ridefinizione delle strategie complessive di contrasto alla povertà in Valle d’Aosta.
• Solleva alcune perplessità anche la definizione del target dei beneficiari. Un primo aspetto concerne l’elevato limite di età (almeno 30 anni) per accedere alla misura. Non ci risulta infatti che vi siano altre misure regionali di esplicito sostegno al reddito rivolte alle persone più giovani: la Garanzia Giovani non può essere considerata tale e nemmeno altri contributi economici, come ad esempio le borse di studio, che al limite avrebbero potuto essere considerate non cumulabili. Tale scelta sembra testimoniare il timore di alimentare dinamiche assistenzialistiche – timore che dovrebbe essere semmai contrastato con provvedimenti diversi da forme di esclusione categoriale – o dall’erronea considerazione che le famiglie composte da giovani, magari anche giovani genitori, non siano esposte al problema della povertà e dell’esclusione sociale. L’esclusione dei più giovani potrebbe essere motivata da ragioni di budget. Anche in questo caso, è sufficiente stabilire dei diritti di precedenza, più che fissare a monte delle esclusioni di natura categoriale. La norma valdostana prevede infatti già un meccanismo di selezione delle domande sulla base dei valori dell’Isee (precedenza ai più bassi) e, a parità di questo, della composizione del nucleo famigliare.
Un secondo aspetto è relativo alla possibilità dei titolari di partita IVA di accedere ai benefici. Tale possibilità appare meritoria, perché suggerisce il riconoscimento di nuovi rischi sociali connessi ai profili di questi lavoratori. Ciò nonostante, il semplice richiamo alla titolarità di partita IVA può portare di fatto a un diverso trattamento tra nuclei familiari, dove alcuni (i disoccupati “classici”) devono possedere una dichiarazione di immediata disponibilità (DID) al lavoro e aver sottoscritto un patto di servizio, mentre per altri è sufficiente che la partita IVA non sia stata chiusa, senza richiedere ulteriori requisiti reddituali. Ciò comporta una situazione singolare, soprattutto a fronte del fatto che il requisito deve essere posseduto da almeno un membro del nucleo familiare. Per fare un esempio, in una famiglia a basso reddito una persona che magari è sempre stata inattiva può richiedere il beneficio d’integrazione al reddito se il partener ha una partita IVA aperta (e percepisce reddito), tanto quanto una famiglia con minori dove entrambi i coniugi si trovano ad essere senza lavoro, ma non possono accedere alle indennità di disoccupazione o le hanno esaurite.
Qualche domanda per una riflessione più ampia
Le misure di sostegno al reddito e all’inclusione attiva sono state promosse in numerose regioni italiane e rispondono all’obiettivo di contrastare la povertà economica e la vulnerabilità sociale. In attesa dell’introduzione di una solida e consistente misura nazionale che, pur fortemente auspicabile, sembra ancora lontana da addivenire, tali esperienze, come quella valdostana, possono rappresentare importanti occasioni non solo per fornire una prima e più rapida risposta a bisogni di indigenza, ma anche per cercare di avviare processi di apprendimento istituzionale rivolti alla gestione di iniziative complesse, quali quelle relative all’inclusione sociale. Colto da questa prospettiva, vi sono però alcune domande centrali che rimangono spesso inevase, della cui risposta potrebbe giovare l’intero dibattito nazionale, ben al di là del caso valdostano:
Come far sì che i “patti di inclusione” non diventino semplicemente documenti standard, adottati solo al fine di dare avvio all’erogazione dei sussidi?
Il problema non è tanto o solo relativo al controllo dei comportamenti dei beneficiari, ovvero alla capacità di esercitare una condizionalità sanzionatoria. La difficoltà principale risiede nel mettere concretamente in atto modalità di attivazione sociale e/o lavorativa di soggetti, spesso estremamente fragili, in contesti economici che si trovano, se non in recessione, perlomeno in una condizione di lentissima crescita.
Quali sono le forme di intervento che, a seguito di accurata valutazione, si rivelano più efficaci per le differenti categorie di persone vulnerabili, posto che la vulnerabilità appare un fenomeno complesso e multidimensionale, non riconducibile a un’unica causa e dunque a un’unica soluzione? Una volta percorsi i tradizionali canali della pubblica amministrazione e del terzo settore, come è possibile coinvolgere le imprese in processi di inclusione sociale e lavorativa? Ed infine, stante le condizioni del mercato del lavoro locale, quali sono gli obiettivi realisticamente perseguibili dai patti di inclusione, in funzione del diverso profilo dei beneficiari? Se l’inserimento del lavoratore si rivelasse almeno nel breve periodo fuori portata, quale potrebbe essere il valore aggiunto dei servizi d’inclusione sociale e come “misurare” tale valore aggiunto? In merito a questo aspetto, occorre sviluppare riflessioni più approfondite sul rapporto che si pone tra i patti di attivazione di orientamento lavoristico e quelli volti all’inclusione sociale in senso stretto.
In molte situazioni, infatti, l’inclusione lavorativa non sembra una strada agevole e percorribile, sia per le condizioni del contesto, sia per le caratteristiche della persona o per una combinazione di entrambe. Per questo occorrono interventi che preparino un eventuale (re-)ingresso nel mondo del lavoro. Sul fronte dell’inclusione sociale, risulta inoltre interessante comprendere che tipo di servizi possono essere effettivamente attivati non solo a favore del beneficiario, ma anche dei componenti della sua famiglia (in particolare i minori).
Quali accorgimenti possono essere adottati per rendere effettiva ed efficace l’integrazione tra servizi e strumenti volti al contrasto della povertà?
Il ragionamento potrebbe svilupparsi lungo due direzioni. La prima ha a che vedere con l’integrazione orizzontale degli strumenti e dei servizi disponibili all’interno delle singole regioni. Per quanto riguarda gli strumenti, occorre comprendere come evitare sovrapposizioni tra norme che spesso coesistono e che sono state adottate in tempi e stagioni politiche diverse, ma che perseguono all’incirca lo stesso obiettivo e che potrebbero essere accorpate oppure divenire oggetto di un ri-orientamento funzionale.
In merito ai servizi e agli attori coinvolti sul territorio regionale, è importante capire come favorire una loro integrazione, ad esempio attraverso l’affinamento di sistemi di profilazione e la costruzione di banche dati on line intese non solo come strumento di rendicontazione amministrativa e contabile, ma come sistema di gestione e controllo delle informazioni utili a costruire, monitorare e valutare gli interventi. Diverse amministrazioni regionali si stanno muovendo in questa direzione, tra cui in particolare l’Emilia Romagna, dove nell’estate del 2015 è stata adottata una legge che prevede strumenti di valutazione delle condizioni di vulnerabilità e fragilità. L’investimento nei sistemi informativi è infatti essenziale e una quota parte delle risorse dovrebbe essere puntualmente e costantemente dedicata a questo.
Il secondo fronte concerne l’integrazione verticale degli strumenti e dei servizi di contrasto alla povertà. Guardando all’interno dei confini regionali, spesso questi provvedimenti coesistono con una pletora di interventi erogati a livello comunale. Allo stesso modo, occorre capire come gli interventi regionali di contrasto all’esclusione sociale e di sostegno al reddito possano dialogare con le misure statali già presenti e in via di costituzione, divenendo strumenti complementari, dunque non semplici duplicati o “tappa buchi”, tarati sulle esigenze specifiche dei territori. In questo caso, la recente esperienza della Provincia di Trento sembra poter fornire alcune preziose indicazioni: nella Provincia Autonoma il cosiddetto reddito di attivazione rafforza le misure statali già esistenti (NASPI e ASDI) e si affianca a una misura di ultima istanza rappresentata dal reddito di garanzia.
A quali condizioni l’intervento del privato sociale può intrecciarsi con quello pubblico, dando vita a dinamiche virtuose?
Il contributo del Terzo settore è spesso invocato perché può apportare nuove risorse, non solo finanziarie ma anche in termini di idee, alle strategie nazionali di contrasto all’esclusione sociale. Ad esempio, il tema del welfare generativo appare sicuramente seducente, ma al di là di qualche buon esempio, più o meno isolato, come è possibile favorire il consolidamento di logiche rigenerative all’interno dello stesso operato dell’amministrazione pubblica?
Il tema è complesso perché talvolta si confonde l’impostazione volontaristica delle pratiche generative, con altre soluzioni quali il baratto amministrativo e le corvée che, essendo imposte a fronte di un qualche debito, assumono un’altra valenza. Inoltre, quali caratteristiche il contesto socio-economico e gli operatori del privato sociale devono possedere per essere in grado di attivare pratiche (ri-) generative? Non solo i risultati, ma la stessa messa in opera di pratiche rigenerative non è scontata, soprattutto se l’obiettivo è quello di andare al di là di qualche esperienza limitata. Infine, come integrare nelle norme regionali di contrasto alla povertà, il richiamo ai temi dell’investimento sociale, della lotta alla povertà educativa e dell’alfabetizzazione finanziaria di base, per poi far sì che a questi principi venga data attuazione concreta?
Queste sono solo alcune delle domande che possono favorire una riflessione sulle esperienze in corso a livello regionale, a cui potrebbero aggiungersene molte altre. La risposta a tali quesiti può emergere anche dalle esperienze concrete e dalla promozione di processi di apprendimento istituzionale continui e aperti, volti a fornire un contributo alla progettazione di un sistema integrato di interventi su tutto il territorio nazionale che ancora manca nel nostro Paese.
Riferimenti
Legge regionale 10 novembre 2015, n. 18, Misure di inclusione attiva e di sostegno al reddito, B.U. del 24 novembre 2015, n. 47.
Delibera Giunta Regionale n. 102 del 2015, Disposizioni applicative delle misure di inclusione attiva e di sostegno al reddito, di cui alla legge regionale 10 novembre 2015, n. 18, come modificata dalla l.r. 1/2016