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Nei più di dodici anni di attività, Percorsi di Secondo Welfare ha osservato e interpretato la crescita di un settore che oggi svolge un importante ruolo di complemento rispetto al welfare tradizionale, quello gestito e finanziato dallo Stato.
Agli inizi si trattava perlopiù di iniziative spontanee, piuttosto disparate sul piano funzionale e organizzativo, isolate fra loro. Raggrupparle sotto un unico descrittore – secondo welfare – fu in larga misura una scommessa: poteva infatti trattarsi di un fenomeno passeggero, oppure di un “fiume carsico” destinato a emergere e scomparire dall’orizzonte a seconda del contesto.
Ciò che nel corso del tempo abbiamo osservato è stato invece un processo di consolidamento e di “strutturazione” interna, che ha via via selezionato le pratiche capaci di resilienza e incentivato passaggi di scala e creazioni di raccordi orizzontali e verticali. Crescendo, il secondo welfare è diventato un motore importante di ciò che l’Unione Europea chiama “innovazione sociale”: nuove idee e sperimentazioni volte da un lato a migliorare le risposte ai bisogni sociali e dall’altro lato a incoraggiare nuove forme di collaborazione fra attori e nuove relazioni sociali e istituzionali.
Questo Sesto Rapporto si focalizza sul secondo lato dell’innovazione sociale, quello della “collaborazione”, il quale è stato a nostro avviso il meccanismo principale di consolidamento e strutturazione del secondo welfare italiano. Più precisamente, il Rapporto illustra le varie forme ed esperienze di co-creazione degli interventi, basata sul coinvolgimento di vari attori sociali e istituzionali dotati di differenti risorse e capacità, da combinare in modo possibilmente sinergico. La co-creazione si articola su due differenti livelli. Il primo è quello della coprogrammazione, ossia l’insieme di attività volte all’individuazione dei bisogni delle comunità, degli interventi necessari e delle modalità per realizzarli, nonché delle risorse disponibili. Il secondo livello è la coprogettazione, finalizzata alla definizione ed eventualmente alla realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento.
I capitoli di questo Rapporto ricostruiscono innanzitutto il quadro generale entro cui si è sviluppata l’innovazione sociale nella sua componente organizzativa e processuale. Vengono poi illustrate le dinamiche di alcuni ambiti specifici ed emblematici, (come le Reti di Conciliazione della Lombardia o il welfare aziendale territoriale) nonché vari esempi concreti, promossi dalle Fondazioni o da attori del Terzo Settore.
Sono molti i fattori che hanno facilitato e incentivato il passaggio dalla fase delle iniziative sparse e spontanee a quella di un sistema sempre più strutturato. Fra questi ne spicca uno che ha giocato un ruolo molto significativo e in parte inatteso: la regia da parte delle istituzioni pubbliche. Già la Legge 328 del 2000, la cosiddetta riforma Turco sull’assistenza e i servizi sociali, aveva posto le basi per gli interventi di innovazione sociale. Il punto di svolta è stata tuttavia la riforma del Terzo Settore del 2017, che ha ampliato in modo significativo gli spazi di decisione e attuazione partecipata, assicurando il coinvolgimento attivo delle organizzazioni sociali senza fini di lucro tramite coprogettazione e coprogrammazione. La recente approvazione (2023) del Codice degli appalti ha confermato il sostegno e l’interesse dello stato all’”amministrazione condivisa” fra enti pubblici ed enti del Terzo Settore.
Il mutamento del contesto normativo ha sottratto le organizzazioni non profit dalla tradizionale marginalità funzionale e simbolica, formalizzando la legittimità e le modalità del loro coinvolgimento diretto nella sfera dei servizi e interventi sociali. Così facendo, ha spianato la strada allo sviluppo di quelle pratiche collaborative capaci di fungere da pilastri portanti del secondo welfare. Nel nostro Primo Rapporto avevamo scommesso sulla possibilità che questo settore potesse non solo crescere come sistema, ma anche che potesse “innestarsi” virtuosamente nel più generale sistema di protezione sociale italiano. In larga misura, coprogettazione e coprogrammazione si stanno rivelando come i veicoli più appropriati e promettenti per facilitare questo innesto. Il quale smentirebbe anche le previsioni iniziali (o quanto meno il retro-pensiero) di alcuni commentatori, secondo cui il solo parlare di un secondo welfare significava de-legittimare il ruolo del primo welfare e aprire la strada ad una sua privatizzazione, più o meno selvaggia.
Naturalmente, il cambiamento normativo non è stato una mossa unilaterale dall’alto, quanto piuttosto il riconoscimento di una realtà già collaudata nonché delle sue esplicite richieste. Il Terzo Settore (ma più in generale tutti i principali attori del secondo welfare) ha proposto di uscire dalla logica della competizione e di relazioni pubblico-privato imperniate sul contracting out e l’abbattimento dei costi. E l’adozione invece di un nuovo modello collaborativo e partecipativo, più impegnativo ma anche potenzialmente più efficace del tradizionale sistema “bandi e contratti”. Un modello, peraltro, più in linea con le raccomandazioni della Commissione europea e la giurisprudenza della Corte di Giustizia, le quali hanno più volte sottolineato l’opportunità di attenuare la dicotomia conflittuale fra i principi della competizione e quelli della solidarietà, sull’assunto che le organizzazioni della società civile contribuiscano al bene sociale in modo trasparente, efficace e rispettoso delle norme sulla non discriminazione e l’inclusione. Un richiamo, quest’ultimo, alla correttezza dei comportamenti dei soggetti coprogettanti, che giustamente tempera la retorica eccessivamente buonista che a volte accompagna nel nostro paese il discorso sul Terzo Settore.
Come si evidenzia nell’ultima parte di questo Rapporto, la co-creazione delle politiche e degli interventi sociali non presenta solo luci ma anche qualche ombra. Poter collaborare non significa saperlo fare: la coprogettazione formalizzata può fornire incentivi perversi, come la formazione di semplici “matrimoni d’interesse” fra enti incapaci o poco motivati a creare sinergie. Resta poi sempre il rischio, particolarmente elevato in un contesto amministrativo come quello italiano, che si generi eccessiva complessità procedurale o si indulga nel formalismo. Nel capitolo conclusivo vengono suggerite una serie di proposte volte a contenere questi rischi, e più in generale a incanalare la co-creazione verso esiti virtuosi.
Nella prefazione al Quarto Rapporto, avevamo salutato la possibile evoluzione del modello italiano di protezione sociale in una direzione “neo-tocquevilliana”, ossia imperniata su quell’ ésprit d’association che Alexis de Tocqueville considerava “il mezzo universale attraverso cui le persone rispondono ai bisogni collettivi“. Osservando più da vicino l’”arte dell’associazione” che si sta sperimentando oggi in Italia (la quale non esclude l’attore pubblico, ma anzi lo vede in parte come regista), possiamo in questo Sesto Rapporto fare un riferimento a un altro grande pensatore novecentesco: John Dewey. Per la tradizione pragmatista americana, la vitalità di una democrazia dipende infatti anche dalla capacità dello Stato di coinvolgere il proprio pubblico nelle decisioni che lo riguardano più da vicino attraverso “un esercizio collettivo dell’intelligenza pratica”, quella su cui oggi sembrano fare leva proprio le pratiche collaborative.