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Il cantiere della legge di Stabilità sta per aprirsi ed ecco arrivare, puntali come orologi, nuove proposte in materia di pensioni. Quest’anno non si tratta solo di salvaguardie per gli esodati o deroghe per questa o quella categoria. Si vorrebbe ripristinare la pensione di anzianità generalizzata a partire da 62 anni, non appena il totale fra età e durata della contribuzione raggiunge «quota 100». La cosiddetta flessibilità in uscita è un’idea su cui è opportuno riflettere. A certe condizioni, può aiutare le imprese che hanno bisogno di alleggerire il personale e amplierebbe le opzioni di ritiro dal lavoro, sulla base di esigenze o preferenze personali. In un mercato occupazionale come quello italiano può anche crearsi qualche spazio (anche se meno di quanto si pensi) per l’assunzione di giovani. Ma chi paga?

Anticipare l’età della pensione vuol dire allungarne la durata e dunque il costo. I contributi versati non bastano oggi a coprire i trattamenti individuali, neppure apartire dai 65 anni con contribuzione piena. Molti non ci credono, ma è così. Nei decenni passati si è prestata poca attenzione alla congruità fra ammontare dei contributi di legge e la formula di calcolo delle pensioni. Il principale responsabile dello «sbilancio» è però l’invecchiamento demografico. A 65 anni gli uomini hanno una aspettativa media di vita residua pari a 18,3 anni, le donne a 21,9 (stime Istat): cinque o sei anni in più rispetto al 1970. Per almeno la metà di questo periodo si continua anche a godere di buona salute.

Più si allunga la vita (una conquista enorme), più dobbiamo preoccuparci di come finanziare le pensioni. Chi propone la flessibilità in uscita deve spiegare bene come intende coprirne i costi. Le soluzioni sono due. La prima è che paghi lo Stato. Le stime indicano una cifra pari ad almeno 5 miliardi di euro l’anno da qui al 2025. Nuove tasse? Tagli di spesa? In entrambi i casi, sacrifici per chi lavora, con conseguenze tutte da valutare. La seconda strada è quella delle riduzioni d’importo (non chiamiamole «penalizzazioni»). Poiché la sua pensione durerebbe più a lungo, a chi esce prima si dovrebbe chiedere di accettare prestazioni leggermente inferiori. Di quanto? In Germania si opera una riduzione dello 0,3 per cento per ogni mese di anticipo (purché ci siano 45 anni di contributi e 65 anni). Più o meno è la stessa cifra indicata dall’Inps per chi si ritirasse a 62 anni: 3,5 per cento l’anno. Nella misura in cui ne traggono vantaggio, anche le imprese dovrebbero partecipare ai costi.

Il presidente dell’Inps Tito Boeri ha fatto a questo proposito una proposta interessante. Se vogliono spingere un dipendente all’uscita anticipata, i datori di lavoro potrebbero prolungare la contribuzione anche dopo la risoluzione del contratto, in modo che a 67 anni scatti un aumento della pensione. Questa opzione potrebbe essere allargata agli eventuali contributi che un pensionato d’anzianità versasse per nuovi lavori o lavoretti. Va benissimo discutere di flessibilità in uscita in vista della prossima legge finanziaria. Ma deve essere chiaro che i costi non vanno scaricati sul bilancio pubblico.

In tema di welfare, le priorità devono semmai essere gli ammortizzatori sociali, le politiche attive e di conciliazione, il reddito minimo. Poiché ha raccomandato alcune di queste misure, Tito Boeri è stato definito dai sindacati come «ministro della Povertà». Speriamo l’abbiano inteso in senso elogiativo. La povertà in Italia è ancora molto elevata, come ha confermato ieri l’Istat. Il governo ha per ora promesso un investimento di un miliardo e mezzo in tre anni: una cifra decisamente troppo bassa. Il sostegno dei più deboli, e non certo il ripristino delle pensioni di anzianità, è la vera emergenza per il welfare italiano. Ed è su questo fronte che andranno misurate la qualità e l’efficacia sociale delle prossime scelte di bilancio.

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 17 luglio



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