Non è la prima volta che si parla di una "manina" che modifica un testo legislativo in bozza. Facciamo in modo che sia anche l’ultima. Si predisponga un percorso – protetto da password – per il transito dei testi ufficiali da un ufficio a un altro, sino all’approdo in Parlamento. Non dovrebbe essere troppo difficile neppure per un paese poco digitalizzato come il nostro. Potremo così smettere di sprecare tempo in sterili polemiche.
Nello specifico, la vicenda di questi giorni solleva però due questioni serie. La tabella che non piace al Ministro Di Maio contiene stime finanziarie delle nuove norme sul lavoro. Che cosa si contesta, esattamente? Le fonti, il metodo, i calcoli? Il governo si è posto l’obiettivo di scoraggiare i contratti precari e favorire quelli stabili. Ma avrà ben fatto un qualche ragionamento sull’efficacia, anche quantitativa, degli strumenti prescelti. Si apra allora un confronto pacato sui punti di vista, sul modo di ordinare e analizzare i dati. Accuse e sospetti servono solo a confondere le idee dei cittadini.
L’altra questione riguarda il rapporto fra verità di fatto e decisioni politiche. Ogni governo ha il proprio programma e ha diritto di perseguirlo anche in base a valutazioni politiche. Nessuna decisione può però prescindere da affermazioni che riguardano la realtà. Il confronto fra punti di vista ha senso nella misura in cui condivide un punto di riferimento empirico.
Le polemiche del governo sui conti previdenziali, sui numeri dell’immigrazione e del mercato del lavoro tradiscono una preoccupante insofferenza verso quella “materia fattuale” che dovrebbe essere il punto di partenza di ogni provvedimento e che ne costituisce inesorabilmente anche il limite. Chi governa non può prendersela coi dati né screditare le istituzioni serie (non molte, in Italia: l’INPS è una di queste) che li producono e li analizzano.
Hannah Arendt diceva che i fatti hanno un’inflessibile e vistosa ostinatezza. Non possono essere cambiati a proprio piacimento. Su questo fronte il governo Conte non sta esordendo bene. Le belle parole (come “dignità”) e le dichiarazioni a effetto possono impressionare nei primi cento giorni. Dopo contano i risultati. Cioè, appunto, i fatti e i dati che li misurano.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 17 luglio 2018 e qui riprodotto previo consenso dell’autore