Una nazione di impoveriti, impauriti e rancorosi. Così il Censis nel suo ultimo rapporto sulla situazione sociale del Paese ha ritratto impietosamente l’Italia. «È una zona grigia di soggetti vulnerabili, questa, in cui il welfare tradizionale, quello dei servizi sociali pubblici, fatica a intevenire: – spiega Gino Mazzoli. Membro del Consiglio Generale della Fondazione Manodori di Reggio Emilia – un licenziamento in famiglia, spese impreviste, malattie, anche solo un figlio inatteso possono essere fattori che conducono a un impoverimento pericoloso ». Pericoloso, soprattutto per un motivo: «Perché sono persone che stanno affrontando una condizione di fragilità mai vissuta prima, e che non accettano di sentirsi povere, faticano a entrare nella dimensione della richiesta d’aiuto, ad andare alla mensa dei poveri o a rivolgersi al Comune o agli assistenti sociali. E in questo modo, decine di situazioni a rischio rimangono nascoste, sotto la cenere».
La parola magica per provare a entrare in questa zona grigia, per conoscere i problemi e provare a risolverli, si chiama welfare di comunità, una modalità di progettazione sociale che chiama in causa la partecipazione della cittadinanza attiva. Progetti, per spiegarla con le parole dello stesso Mazzoli, «in cui i membri della comunità sono chiamati sia a fare da antenne che recepiscono i bisogni e le nuove fragilità, sia da agenti di comunità che con il loro lavoro volontario concorrono a risolvere il problema». Progetti, infine, il cui gli stessi vulnerabili, non più semplici destinatari, diventano parte attiva del progetto stesso e collaboratori da attivare.
Aiutare la zona grigia degli impoveriti: ecco a cosa serve il welfare di comunità
Linkiesta, 14 dicembre 2017